Gli Scritti
La Pittura
Automobilismo
La comunità del mattino Nel quotidiano
Contatti
 
 
Visita il sito Elogio del Dissenso

Cerca tra i contenuti del sito:

 
 
 
 

Sto studiando per imparare a morire

percorso di preparazione


Da qualche tempo sto lavorando sull'argomento, non so con che velocità proseguirò né se riuscirò a concluderlo e in quanto tempo. Se qualcuno è interessato a interagire mandandomi suoi commenti può scrivermi all'indirizzo: comattino@elogiodeldissenso.it



 Sto studiando per imparare a morire



Introduzione


Parecchi anni fa, quando ho pubblicato il libro intitolato Accanto al malato… sino alla fine, avevo proposto di chiamarlo: In confidenza con sorella morte, ma l'editore si è opposto dicendo che la parola morte scoraggia i lettori. Per dirne un'altra, quando vado in qualche museo chiedo volutamente se ci sono sconti per i vecchi, ma mi sento quasi sempre correggere con la parola anziano, talvolta perfino con aria di rimprovero. Morte e vecchiaia: due parole imbarazzanti che la dicono lunga su timori e fragilità psicologiche.


Mi domando quale vantaggio si possa trarre dal non chiamare le cose col loro nome, dal non guardare in faccia la realtà. La morte riguarda tutti, e mentre per i giovani è un fatto accidentale, per i vecchi sancisce la chiusura naturale della loro parabola. Per questo io che sono vecchio mi sono messo a studiare per capirne meglio il senso, nella speranza di farmela amica.


Esistono testimonianze significative di persone che giunti sulla soglia, magari dopo lunghi anni di sofferenze, hanno voluto raccontare il travaglio vissuto e descrivere il loro adattarsi all'inevitabile. Ma io non ho la morte davanti agli occhi, né ho idea di quando si presenterà: vorrei solo abituarmi a parlarne così, in piena libertà, con animo sereno e senza alcuna costrizione.


Dato che credo nei valori della collaborazione, mi piacerebbe condividere le mie riflessioni con chi vorrà, via via che lo studio prenderà forma. Non so dove mi porterà questo viaggio che, lungo o corto che sia, accompagnerà comunque la fase terminale del mio percorso terreno. Come dire che non so dove vado, ma ho deciso di andarci. E con allegra inquietudine, spero.


Sarò lietissimo di confrontarmi con le opinioni di chi vorrà inviarmele, e in particolare con obiezioni, critiche e dissensi che possano aiutarmi a mantenere la rotta.




1. Vecchio è bello


Gli ottanta me li sono lasciati alle spalle da tempo, ma sto bene e non vedo di che cosa potrei lamentarmi. Vero che la lombaggine è sempre in agguato, ma ho imparato a gestirla come un'amica, e di solito mi avverte prima che qualche strega tenti di assestarmi uno dei suoi colpi maligni. Ci sono anche le gambe che si abbandonano a qualche capriccio, ma che sarà mai un po’ di male ai polpacci? Devo solo sedermi più spesso, cosa piuttosto facile una volta presa l’abitudine. D’altronde un ultraottantenne che potrebbe pretendere? Talvolta mi lacrimano gli occhi, abbondantemente, e devo asciugarmeli per togliere quel velo che altera la vista. Per fortuna, salvo rare eccezioni, non dimentico di portare con me un fazzoletto pulito.


Ricordo che una volta, mi sembra quasi di rievocare gli albori della mia vita, facevo pipì in un lampo, mentre oggi ci vogliono delle ore. Una cisti alla prostata fa parte degli acciacchetti dovuti all’età. Volevano togliermela, anni or sono, ma per fortuna ho resistito alla tentazione: di amici che hanno subito disastri per operazioni simili ne conosco più d’uno. Così mi siedo sulla tazza e aspetto con pazienza tutto il tempo necessario: non è una tragedia. Sto bene, fin troppo bene: che saranno mai un po’ di reumatismi? Trovo assai più antipatici i crampi muscolari, soprattutto quando vengono a visitarmi la notte. E tanto più che neppure se mi alzo a passeggiare sembrano, a volte, accontentarsi.


Tutte cose che si possono sperimentare anche da giovani, crampi, reumatismi, lombaggine, ma invecchiando tendono a farsi più insistenti, come se volessero superare una semplice conoscenza occasionale per entrare in rapporti di più stretta amicizia. Dell’allergia, invece, potrei dire il contrario: da giovane, per anni, ho avuto rapporti intimi con una rinite allergica che definire maiuscola mi sembra riduttivo, mentre ora devo prender atto che si limita a brevi e saltuarie visite, quasi si fosse offesa per chissà quale motivo. La vecchiaia, poi, offre anche altri vantaggi: uno di questi è che mi sporco molto meno. Un tempo, dopo mezza giornata la mia camicia era già ombrata, mentre oggi la uso più giorni e talvolta, quando la cambio, sembra ancora pulita. Sarei tentato di non lavarmi più, ma non ho ancora superato del tutto i pregiudizi della civiltà.


L’energia non mi manca e la prontezza di riflessi è ancora viva. Potrei dire che mi sento felice di essere vecchio, e tuttavia mi stanco, questo sì: mi stanco molto più d’un tempo. Quando mi capita di parlarne mi sento abitualmente rispondere che è normale stancarsi, a una certa età, e allora mi ricordo che a una certa età è anche normale morire. Il punto chiave è che ho imparato a gestire la stanchezza, ma non ho ancora imparato a morire. E questo mi crea non pochi interrogativi e qualche perplessità.


Le cose che ho appreso nella mia vita sono tante, veramente tante. Che altro potrei imparare ancora, mi dico? Moltissimo, lo so bene, ma che importanza avrebbe? Quel che manca non si può misurare, dicono i profeti: anche il più sapiente degli esseri umani, anche un’intera enciclopedia comprende in sé pochissime cose rispetto a quante ne restano da conoscere. Qualche sapere in più che cosa cambierebbe? Non certo l'essenza del mio essere, o comunque non in modo significativo. L’unica cosa fondamentale che potrei ancora fare è imparare a morire, altrimenti prima o poi mi toccherà morire senza avere imparato, cosa che mi suona piuttosto sgradevole.


Per rendermene conto meglio, provo talvolta a immaginare di essere obbligato a svolgere un qualche mestiere che non conosco. Se mi costringessero a fare l'elettricista probabilmente mi specializzerei in cortocircuiti, o l'idraulico in allagamenti. E questo è niente: se mi trovassi a un tratto in camera operatoria con un bisturi in mano, come potrei usarlo senza aver studiato e fatto pratica di chirurgia? Che vergogna! Molti giungono alla fine dei loro giorni senza neppure accorgersene, cosa che a me, personalmente, non piacerebbe affatto. Per questo ho deciso di tentare un percorso di studio per imparare ad accogliere sorella morte con allegra serenità, quando verrà a trovarmi. Potrei dire che la mia vita ormai l'ho fatta, è stata bellissima nelle gioie e nelle sofferenze, e quando si renderà compiuta non resterà che dire: amen.


Provando a confidarmi con qualcuno mi sono sentito dire, a mo' d'approvazione, che è importante prepararsi alla morte. Ma non è questo che intendo: tra imparare e prepararsi c'è un abisso, e provo a spiegarmi con un esempio. Supponiamo che io mi voglia preparare a fare il falegname: cercherò un locale adatto, lo allestirò con macchinari e attrezzature, mi procurerò una scorta di legname e sarò pronto. Ma se non ho imparato il mestiere che sono pronto a fare? Oggi mi sento stimolato a studiare per imparare, quanto a prepararmi, credo sarà una conseguenza automatica. Per chi interpreta la morte come evento tragicamente negativo, prepararsi potrebbe voler dire rassegnarsi all'inevitabile, con accompagnamento di scoraggiante tristezza. Ma io non intendo affatto rassegnarmi a morire: vorrei imparare proprio per non morire rassegnato. Da quando ho scoperto che la parola defunto significa compiuto non vorrei trovarmi morto senza essere defunto, senza aver compiuto la potenzialità naturale a mia disposizione.


Sono ben cosciente che fra un po' morirò, e le solite frasi tipo: ma che dici! Stai benissimo! Vorrei arrivare io alla tua età in buona forma come sei tu, suonano tutte come dei de profundis atti a confermare che stare bene alla mia età è un fatto eccezionale, e non la regola. E l'eccezione, poi, non sarebbe quella di sfuggire alla morte, ma semplicemente di spostarla un po' più in là. Ma un po' più o un po' meno che cosa cambia? Qualcuno mi dice che "sono in gamba", ma quando mi guardo allo specchio io vedo un vecchio. Perché dar spazio a velleitarie illusioni? Qualche giorno fa ho ascoltato un medico dire che di certe malattie non si muore più, e citava trionfalmente l'esempio di una persona nota che era arrivata fino a 80 anni! Appunto. Io che li ho abbondantemente superati sono vicinissimo al termine, fra un po' morirò, e che sia tra uno, cinque, dieci anni non ha alcuna importanza: è sempre fra un po'. Spero che chi mi legge sia abbastanza libero da pregiudizi sulla parola morte, e abbia ormai capito che nelle mie intenzioni non c'è né pessimismo né tristezza ma, al contrario, il tentativo di approfondire un cammino di grande speranza. E se di solito l'argomento viene affrontato con drammatico pathos, io vorrei imparare a parlarne così, con serenità e, perché no, con allegria.


Da tempo direi che mi sento tendenzialmente pigro: non mi andrebbe più di far niente, cosa che però mi crea un certo disagio, perché sono stato educato in un ambiente sociale che ha come slogan: il tempo è denaro. Il denaro però ben presto non mi servirà più a nulla, perciò mi dico: non c'è più tempo da perdere, devo assolutamente imparare a perder tempo. Non mi è facile, perché l'educazione ricevuta mi ha insegnato a sentirmi in colpa se non sono produttivo, ma ora sto tentando di ribellarmi. Perdere tempo è un’arte che non annovera molti esperti: i più perdono tempo con imbarazzo e rammarico, anziché gioia e soddisfazione per la conquista di nuove libertà. Non voglio più perdere tempo così, passivamente, ma vorrei saperne trarne utili frutti, mi dico prima di cominciare a ridere della contraddizione. Forse la mia pigrizia è così intensa da impedirmi di essere totalmente pigro, fatto sta che non ho più nessuna voglia di affannarmi inseguendo le fatiche del quotidiano, perciò capisco che devo lavorare sodo per studiare e imparare questo benedetto mestiere conclusivo: non vorrei morire senza saperlo, senza capirlo, senza neppure accorgermene. Insomma, mi piacerebbe tanto imparare a morire, anche se non capisco bene che cosa significa. Queste mie riflessioni sono l'incipit di una ricerca scritta, che fa parte integrante del mio piano di studio.


2. Ansiose prevaricazioni


Il problema non è legato al tempo che ho ancora a disposizione: gli anni potrebbero anche essere molti, tanto più considerando gli odierni progressi della medicina. Ma che cosa cambierebbe? Tanti o pochi che siano, passeranno rapidamente. Potrei dire che non ho più il futuro, e me ne sono accorto quando ho capito che stavo facendo certe cose per l’ultima volta. Per esempio quando ho riverniciato le persiane di casa: lo avevo fatto vent'anni fa, ed è ovvio che la prossima volta spetterà a qualcun altro. Stessa cosa potrei dire per la potatura dei pini del mio giardino: erano passati più di quindici anni dall'ultima volta, perciò lascio ai posteri quella successiva. Per non parlare dei grandi progetti che fanno discutere l'opinione pubblica, come ad esempio il ponte sullo stretto, o la TAV, o gli Stati Uniti d'Europa, tutte cose che, nella più rosea delle previsioni, si proiettano oltre i confini del mio esserci. Salvo rarissime eccezioni, oggi non c'è più nessuno della generazione dei miei genitori. Appartengo all'ultima fascia d'età, quella in fase terminale, quella che non può più fare programmi a lunga scadenza. Perciò non ho più il futuro, perché ormai posso prendere in considerazione soltanto quel futuro così prossimo da appartenere anch’esso al presente.


Qualcuno mi ha obiettato che imparare a morire è impossibile, o quasi, perché s'impara solo dall'esperienza vissuta, mentre la morte, una volta sperimentata, non concede più nulla. Ma qui c'è un equivoco: non intendo imparare a essere morto, che è una realtà statica e immutabile, almeno dal punto di vista fisico. Il morire invece ha un suo dinamismo: qualcuno che sta morendo, o sta per morire (senza però avere imparato) di fronte all'ineluttabile può provare sconforto, rabbia, disperazione o altri atteggiamenti di rifiuto, mentre a leggere il Fedone si può restare colpiti dalla serenità di Socrate, che a me suona come dimostrazione che lui aveva imparato a morire. Mi piacerebbe giungere a un risultato analogo, e mi accontenterei anche soltanto in forma approssimativa. Insomma, mi piacerebbe imparare a mantenermi sereno, tranquillo e sorridente di fronte all'evento che suggellerà per sempre la mia parabola vitale.


Quando ne parlo c’è sempre qualcuno che mostra imbarazzo e disagio, come fossero ragionamenti sconvenienti, c'è sempre qualcuno che si mostra turbato come se dicessi di voler morire. Invece vorrei semplicemente imparare, nella speranza di trovarmi a mio agio quando avverrà l'incontro. La tendenza comune è sfuggire e accantonare il pensiero della morte, cosa che si può anche capire finché c'è la gioventù, che tende a farla percepire lontana, quasi non esistesse. Ma con gli anni l'argomento diventa d’attualità per tutti, e allora, mi dico, perché non parlarne come si parla di qualsiasi problema da affrontare, anzi, da imparare ad affrontare? Non mi sembra giustificato che riflettere sull'inevitabile provochi ansie o turbamenti, anzi, a me pare che possa schiudere la porta a una grande conquista di libertà.


Nella mia vita di mestieri ne ho fatti tanti e di vario tipo, ma tutti in proprio e senza protezioni mediche, assistenziali e assicurative di alcun genere. Così non ho mai potuto permettermi di stare un giorno a letto per malattia (salvo quando mi sono rotto una gamba e quando mi sono lacerato il tendine di una spalla). E oggi mi è rimasta nell'inconscio la sensazione di dover produrre, per non rischiare future conseguenze sgradevoli. Ricordo che in passato mi sentivo spesso preoccupato, talvolta in modo ossessivo, ma adesso? Devo solo vivere il presente, mentre quel che accadrà domani, o dopodomani, non mi riguarda più.


E tuttavia devo ammettere che tali riflessioni restano per me teoria, almeno in parte, perché non ho ancora imparato a morire, tanto è vero che continuo a lasciarmi condizionare da miopi affanni di vita quotidiana. Affanni che si accompagnano sempre alla tentazione di restare ancorati ai luoghi comuni, tra i quali spicca sovente una qualche velleitaria preoccupazione per gli altri. Quando, più o meno direttamente, ci troviamo coinvolti nei problemi di figli o nipoti, ma anche di persone amiche, come sarebbe possibile non sentirsene partecipi? Nessuno nega che il pathos per i travagli altrui sia un sentimento positivo, ma perché mi capita di preoccuparmene come se dovessi pensarci io, come se dipendesse da me risolvere i loro problemi, come se fossi indispensabile? Lascia fare a loro, mi dicono tutti, e me lo dico anch’io. Ma poi vedo l’avvitarsi attorno a certi problemi per dei comportamenti che mi sembrano discutibili, o negativi, e mi dico che io farei diversamente. E allora ci risiamo! Così, magari, intervengo, col risultato di apparire prevaricante. Più volte mi sono sentito accusare di voler fare sempre quel che dico io, e quando faccio notare che la mia intenzione è soltanto quella di porre degli interrogativi per stimolare a scelte più oculate, c’è chi mi risponde che è prevaricante il modo in cui li pongo. Mah!!!! È nota la tendenza ad accusare gli altri dei propri difetti, e so bene che quando il bue dice cornuto all’asino è lui a mascherare problemi psicologici. Ma io chi sono dei due, mi domando? Talvolta mi sembra chiaro, ma confesso che altre volte non riesco a capirlo.


Chi mi credo di essere? Indispensabile? Più bravo degli altri? Mi lascio forse prendere da una qualche forma di delirio d'onnipotenza? Quando penso con preoccupazione a problemi altrui non fatico a sperare di essere io a sbagliarmi. Nel passato, del resto, quante, quante volte ho sentito emergere angoscianti timori per i figli! Come faranno? Poi, in qualche modo, ce l'hanno sempre fatta. E così mi sento più ottimista: forse ce la faranno anche sta volta, perché no? E tuttavia quando mi sembra che affrontino le difficoltà in modo negativo e pericoloso che dovrei fare? Infischiarmene? Se mi accorgo, per dirla con una metafora, che la casa di un mio parente si sta allagando, se lo dico e lo ridico ma nessuno mi da retta, se continuo a dirlo ma senza risultati pratici, se avverto il rischio di catastrofe e tuttavia nessuno si preoccupa ancora di chiudere il rubinetto di afflusso, dovrei forse fare violenza a me stesso per impedirmi di chiuderlo io, se posso farlo? Eppure quante volte mi sono sentito trattare da prepotente! In altre parole, se mi pare che qualcuno stia per suicidarsi non riesco a restare passivo: preferisco correre il rischio di fare una brutta figura, nel caso si tratti soltanto di mie impressioni. Così, quando capita, mi accorgo di non aver ancora imparato a morire.


Talvolta mi sento come imprigionato da problemi altrui, e per di più con un senso di reticenza di fronte alla possibilità di varcare la porta dell'evasione, che so perfettamente di essere io a poterla aprire, se voglio. Che cosa mi credo? Che cosa ho fatto nella mia lunga vita? Son ben cosciente di non essere proprio nessuno, se non un qualsiasi vecchio che ha vissuto semplicemente le sue esperienze. E se ho realizzato anche tante cose belle e positive (sarebbe falsa modestia negarlo) ho anche fatto parecchie stupidaggini delle quali non posso che vergognarmi. Da qualcuno ho sentito dire che nella vita di ciascuno ci sono delle cose di cui vergognarsi, e chi non lo ricorda dovrebbe vergognarsi della sua scarsa memoria. Personalmente me ne ricordo abbastanza.


Insomma, solo perché uno è vecchio talvolta si crede di dover insegnare a vivere: questo l'ho imparato. Ma che cosa potrei insegnare io, se non mostrarmi per quello che sono? E che cosa potrei apprendere ancora di significativo? Da tempo sono giunto all’età che comprime il futuro, perciò devo stare attento a non sprecare il presente, a spenderlo bene. O almeno provarci, senza lasciare che mi scorra via fra le mie dita come granelli di sabbia lasciandomi, alla fine, a mani nude.


Certo che sono proprio strano, mi dico. Quando ho capito che devo solo più imparare a morire ho cominciato a raccogliere del materiale sull'argomento, per impostare un progetto e fare un piano organico di studio. Per un po' di giorni, quando mi scoprivo a fare dell'altro, quasi quasi mi rimproveravo rammentandomi che quello è ormai il mio obiettivo primario. Finché una mattina mentre mi facevo la barba davanti allo specchio, guardandomi bene negli occhi mi sono detto: se sta diventando una fissazione è evidente che sono ancora ben lontano dall'imparare. E così mi sono ritrovato (finalmente?) al punto di partenza.


3. Un giovanissimo vecchio amore

Tutto sommato la vecchiaia mi piace e sono contento di farne esperienza. Anche la mia sposa mi piace da vecchia, tanto che non la cambierei con quando era più giovane. Quella me la sono goduta a suo tempo, ora mi godo questa così com’è. Intendo dire che oltre a beneficiare di tutta la complicità che abbiamo accumulato negli anni di scontri e condivisioni, continuo a trovarla attraente, anche fisicamente, Non è che non vedo le sue rughe e le sue sfioriture, è che tutto sommato mi piacciono anche quelle. Ciascuno pensi quello che vuole, ma può anche darsi che si tratti di un autentico miracolo.

Fatto sta che il nostro amore ce lo godiamo quotidianamente. Le mie braccia hanno bisogno delle tue, dice una meravigliosa canzone brasiliana, e noi non manchiamo di sottolineare che è proprio vero. Distesi accanto, nel letto, con le dite che si attardano su quella pelle così comunicativa, che emozione avvertire il regolare ripetersi di reazioni piacevoli, non solo nei sentimenti. E se certi aspetti sono meno dinamici, i nostri baci non sono meno appassionati che a vent'anni. Un miracolo connesso all’amore, suppongo, a un amore coltivato con perseveranza da dodici lustri.

Che meraviglia il monotono susseguirsi di momenti d’estasi coniugale! Anni fa mi ero divertito a dedicar alla mia eterna sposa una canzone che diceva: sai che palle la vita quotidiana sempre accanto a te! Ogni giorno, ogni settimana sempre accanto a te! Non so dire perché non fuggo lontano da te. Forse un giorno si svelerà il mistero e capirò perché. E ora, da qualche tempo, il mistero si è svelato e ho capito quanto è straordinariamente affascinante la monotonia dell’amore quotidiano: mangiare, litigare, camminare, respirare, dormire, scontrarsi, incontrarsi, sempre insieme. Non in ogni momento, s'intende, ma nel legame continuativo che si rende via via sempre più solido, fino a diventare indissolubile. Una monotonia di qualità divina, come canta Edith Piaf nel suo Inno all’Amore, che conclude dicendo: avremo per noi l’eternità là dove non ci sono più problemi, per chi si ama. Una brillante prospettiva che ci attrae entrambi, ma intanto dobbiamo imparare a morire.

Siamo così diversi da essere necessariamente complementari. Nell'occasione di un anniversario particolare alcuni nostri cari amici, molto coinvolti con noi, ci hanno paragonati a una quercia e un ulivo, ma con opinioni diverse sulle singole attribuzioni. Così, alla fine, ci hanno definiti assieme un querciulivo. Diversi ma complementari: a volte lei dice di sentirsi un po’ imbranata, e in certe cose sembrerebbe avere ragione. Ma in altre, invece! Sovente la sua sensibilità mi stupisce e mi guida. Lei sostiene che io sono più rapido nella comprensione razionale, cosa probabilmente vera, mentre sulle percezioni emotive quante volte la scopro più avanti di me! Non ho dubbi che farei molta più fatica a conoscere il senso di talune esperienze se non ci fosse lei che mi precede e m’illumina la strada. E poi non solo sul piano della sensibilità, ma anche su particolari aspetti materiali o fisici quanti punti mi da! A parte il fatto che rifà i letti e piega le camicie con una precisione che non riesco assolutamente a eguagliare, neppure mettendocela tutta, mi stupisce soprattutto per certe capacità atletico ginniche. Nel nuoto, per esempio, sembra una professionista, mentre io resto desolatamente un principiante. Nello yoga, poi, riesce a fare delle torsioni e mettersi in certe posizioni e che solo i maestri sanno assumere con disinvoltura.

Per carattere, io sono più estroverso e quindi quello che faccio emerge, di solito, più evidente, ma la sua perseveranza la rende affidabile in maniera tranquillizzante. Dal punto di vista psicologico è senz’altro la persona più equilibrata che conosco, e per spiegare che cosa intendo dire aggiungo che da un lato non si trattiene mai dal coinvolgersi con grande intensità nei drammi e nelle gioie che incontra, ma contemporaneamente continua a comportarsi sempre allo stesso modo, con una normalità disarmante, senza lasciare che turbamenti e letizie modifichino il suo atteggiamento. I suoi pianti intensi e delicati di fronte ad angoscianti tragedie vicine o lontane, la sua prorompente commozione davanti a bellezze artistiche o naturali, ma anche le sue risate cristalline che trascinano le mie, hanno finito per giocare ruoli fondamentali nel nostro rapporto. Sovente ci prendiamo in giro e ridiamo come due ragazzini, finché l’emozione non finisce per travolgerci. Amare, soffrire, piangere, vivere dice la canzone. Per noi bisogna aggiungere anche ridere e godersela. Insegnami a morire, le dico nei momenti di maggior coinvolgimento, e lei ingenuamente mi risponde che non saprebbe come fare, perché neppure lei ha imparato, finora. Ma non credo che questo importi molto. Quel che più conta è che siamo d’accordo entrambi sul voler imparare.

Anni e anni di coinvolgimento creano risonanze permanenti, e noi ne abbiamo viste e vissute di tutti i colori, condividendo esperienze d'ogni tipo. E lo spettacolo continua. Da molto tempo il nostro slogan è: apri le braccia al futuro: il meglio deve ancora venire, e se oggi non abbiamo più futuro le spalanchiamo al presente per non perderci neppure un istante. Abbiamo capito l’importanza di riscoprire i positivi banali e accogliere i problemi come eventi normali, senza fatalismo, con serenità.

Comunque sia, al di là delle teorie, sempre opinabili, lei ha già cominciato a insegnarmi, anzi, si può dire che mi abbia costretto a fare un tirocinio assai interessante. Qualche mese fa si è rotta. Non tutta, solo un femore, cosa tuttavia già piuttosto impegnativa. Quasi due mesi all’ospedale costringe a un cambio d’abitudini che non avevo mai sperimentato. Non tanto nel mandare avanti la casa, come lavare, pulire, riordinare, cosa che non fatico a fare (in modo piuttosto approssimativo, s'intende). E neppure nel cucinare, che ho più o meno sempre fatto. Ma dormire da solo in quel lettone vuoto! E poi l’assenza della normale condivisione e ancor più dei lunghi silenzi a due! Un conto è lavorare al computer con lei che traffica, o sta seduta a leggere, o guarda la televisione, o s'inventa qualcosa, ma lì, a poca distanza. E un conto è dover aspettare l’ora di visita per potersi incontrare: una differenza pesante da sopportare.

Poi finalmente è tornata a casa e ha ripreso a trafficare. È assai meno indipendente, anche perché non si azzarda più a guidare l'automobile, e quindi è necessario che mi dedichi di più a lei. Non mi pesa, ma pesa a lei che vorrebbe fare molte cose anche rischiose, tanto che a volte mi tocca combattere per contenerne l'impeto. Così, talvolta, abbiamo ripreso a litigare, ma sempre tenendoci per mano. Nel passato aveva già subito alcuni traumi, come un distacco di retina o un'altra frattura di femore, ed è fuori dubbio che ogni volta esperienze drammatiche abbiano sempre contribuito a migliorare il nostro rapporto coniugale. Ma ora non cesso di ripeterle: fammi il piacere di non romperti più nulla, perché il nostro matrimonio va abbastanza bene così, e sarebbe velleitaria la pretesa di migliorarlo ancora. Non esageriamo. Ciò non ostante qualche giorno fa è caduta di nuovo e ha battuto un ginocchio e una mano. Fratture, per fortuna, niente, ma ospedali, visite mediche, e poi una sofferta convalescenza non ci hanno lasciati soli.

Al presente si potrebbe dire che stiamo vivendo una piccola esperienza di risurrezione, anche se cammina col bastone come fa una vecchia, appunto. Ora io sarò scemo, mi dico, ma quel vederla caracollare col bastone lo vivo come un fascino in più.

4. Scemo o non scemo?

Sarò scemo, dicevo, ma anche un sentimentale. Già dai primi contatti con i lettori di questo mio studio ho ricevuto talune risposte che mi riempiono di stupore e meraviglia. Anche qualche critica e contestazione, per fortuna, ma di un genere che definirei normale. Gli apprezzamenti invece vanno molto al di là. Ho ricevuto frasi come: la tua proposta mi affascina; sei sempre fortissimo, non finisci mai di stupire; sono sorpreso e affascinato; bellissime pagine; grazie per questo tuo scritto; mi interessa da morire (!); me lo bevo con gusto proprio come potrei gustare l'acqua di una sorgente; le tue righe sono piene di brio e di vivace apertura alla vita; grazie, grazie e ancora grazie; penso che il meglio verrà dopo e lo aspetto con gioia.

L'iperbole sembra quasi normalità, tanto che mi sento avvolto dallo stupore: fino a che punto sono esagerati tali apprezzamenti? In ogni caso sono sempre sorprendenti. Per mia fortuna un certo scetticismo non mi abbandona: imparare a morire m'interessa assai più che inseguire il successo. Il commento che mi ha colpito di più è stato: ciao vecchio scemo, si vede che hai ancora un po' di cervello che funziona.

E a proposito di scempiaggine, da tempo sento affiorare un interrogativo: potrebbe uno scemo non essere scemo? So che a prima vista appare una battuta di spirito, ma più ci penso e meno trovo risposte esaurienti. Quand'ero ragazzo, ricordo che il professore di matematica, se qualcuno si mostrava zuccone ripeteva: c'è un antico teorema che dice: quando uno è scemo è scemo. E il corollario aggiunge che non c'è niente da fare. Insomma, una risposta decisamente negativa, che suona tuttavia non tanto come affermazione gratuita e non verificata, ma come stimolo a riflettere. Si tratta di una problematica complessa, e per rendersene conto basta cambiare il soggetto e chiedersi: potrebbe un ignorante non essere ignorante? In questo caso la risposta è ovviamente affermativa: basta studiare e l'ignoranza svanisce. Ma uno scemo può avere a disposizione qualche tipo di studio per imparare a non essere scemo?

Quando propongo il quesito, non importa se in forma seria o scherzosa, c'è sempre qualcuno che tende a svicolare apparentemente scandalizzato, chiedendo in base a quale criterio si può essere autorizzati a definire scemo un qualsiasi essere umano. Ora, sul piano oggettivo non saprei proprio che cosa rispondere, ma soggettivamente mi sento autorizzato a dire che io sono scemo, o per lo meno ne ho il forte sospetto. Di sciocchezze, in vita mia, ne ho fatte a bizzeffe, anche del tipo che mi vergognerei a confessare, e quel ch'è peggio continuo imperterrito a farne. Talvolta, direi, ben sapendo di farle, perché ragionando identifico perfettamente, almeno in teoria, quali sciocchezze mi trovo davanti, ma questo non m'impedisce di farle lo stesso (anche se non sempre, per fortuna!). Sotto tale profilo temo che la vita non mi abbia insegnato nulla, ed è per questo che continuo a chiedermi: sono proprio scemo, oppure faccio semplicemente delle scemate? Non mi sembra una domanda oziosa, perché nel primo caso forse non c'è niente da fare, mentre nel secondo potrei ancora sperare d'imparare a non caderci più, o per lo meno a limitare i danni. Insomma, non so se uno scemo è condannato a esserlo per sempre, ma per chi fa semplicemente delle sciocchezze dovrebbe essere possibile imparare a non farle.

Naturalmente sarei tentato di chiedermi se anche simili ragionamenti sono una sciocchezza, ma rinuncio al rischio di avvitarmici. Preferisco interrogarmi su quanta coscienza ho di me, del mio modo di essere, della mia realtà profonda. I guru dicono che è difficilissimo parlare di coscienza per il semplice fatto che qualsiasi individuo crede di averla già, e pensa che le considerazioni sulla presa di coscienza riguardino sempre altri e non lui. Io cerco di essere più prudente, ma non so se ci riesco. Capisco che se la coscienza è una possibilità dinamica, a qualunque punto la mia si trovi potrebbe andare oltre, potrebbe salire di livello. Ma poi mi dico: se capisco che il mio stato di coscienza è insufficiente sono già a un livello superiore rispetto a quando non lo capivo. Sol chi sa che nulla sa ne sa più di chi ne sa, dice il vecchio proverbio di sapore socratico. Talvolta mi sembra di capire poco, molto poco, e lo dico sul serio, sinceramente. Ma mi rendo conto del rischio velleitario di pensare inconsciamente che non capisco nulla, nell'illusione di essere un passo avanti. È come il famosissimo cane che si morde la coda: uno che capisce di essere scemo forse tanto scemo non è, mi dico con speranza.

I guru insegnano che tre sono gli stati di coscienza ordinaria: il sonno, il sogno e la veglia. Poi c'è il quarto stato, di coscienza superiore, che è quello dell'illuminato. Ma non sempre i guru sono a quel livello. Riflettendoci emergono alcune ovvie scoperte. Ad esempio, chi dorme non si pone problemi: quando ha ficcato il muso dentro lo scudellone della sbobba, lo scopo della vita è bell'e chiuso come dice molto bene Trilussa. Personalmente, per il solo fatto di pormi il problema mi azzarderei a credere di non essere proprio addormentato, ma come posso sapere se sono sveglio o sto sognando? Qualcuno mi ha detto che sognare, in metafora, significa vivere "alla come viene", affidati al caso, senza neppure tentare di gestire la propria vita, senza ricercare il senso della realtà. Il sognante ragionerebbe per stereotipi e luoghi comuni, ribadendo affermazioni precostituite senza capacità di aggiornarsi e di accedere a nuove conoscenze, o meglio, di scoprire quello che può svelarsi solo a chi lo sta cercando. Insomma sarebbe uno che cristallizza il suo bagaglio e non desidera cambiare opinioni, perché le percepisce come un possesso e teme, cambiandole, di perdere qualcosa di sé. Mentre chi è sveglio, mi è stato detto, sarebbe sempre pronto a rimettersi in discussione, perché sa che sulla strada verso l'illuminazione si può cambiare solo per arricchimento.

Tutto chiaro, mi sembrerebbe, ci sono sufficienti parametri per poter valutare il proprio stato. Ma poi, improvvisamente, mi domando: e se stessi sognando d'essere sveglio? L'unica cosa che mi sembra chiara è che questa strada è piena di tourniquet con andamento a zig zag. Gli inganni della psiche sono subdoli, lo sappiamo tutti, anche se alcuni se ne disperano mentre altri se ne infischiano. Comunque sia, se di sciocchezze ne facciamo tutti, svegli, sognanti o addormentati, come anche intelligenti o scemi, resta molto difficile capire se per superficialità oppure perché uno è proprio scemo di natura.

Sta di fatto che moltissime persone, mi pare, vivono senza porsi quesiti sul senso dell'esistenza, e si comportano come se la morte riguardasse solo altri. Lo dimostrano, ad esempio, certe frasi stupide che circolano frequentemente negli incontri tra vecchi, tipo: fin che ci vediamo vuol dire che va bene, oppure: questa è una valle di lacrime ma io ci piango così bene! Come se l'importante fosse il semplice sopravvivere, senza preoccuparsi, invece, di sviluppare le potenzialità che la natura ci offre. Che altro aggiungere?

Si può essere scemi con tante varianti, e forse il mio modo personale è un po' sofisticato. In teoria mi pongo il problema sia d'indagare il senso della realtà, sia di lavorare per compiere la vita che ho a disposizione, ma di fatto mi lascio ancora coinvolgere da insignificanti eventi del quotidiano, che mi sembrano tanto importanti oggi, anche se so bene che li avrò già dimenticati domani. E in più mi dico che se la presa di coscienza dipendesse dall'intelligenza (dal non essere scemi) la natura sarebbe in un certo senso razzista, cosa che non riesco a credere. La percezione della propria realtà personale penso derivi da altre caratteristiche, anche se resta difficile capire quali.

Non riesco a non fare sciocchezze, e direi che sbagliarmi è il mio mestiere. E per di più non capisco se mi sarebbe possibile non essere scemo, perciò mi domando: uno scemo può anch'egli imparare a morire, oppure è destinato a finire la sua vita senza farsi defunto, cioè compiuto? Un dilemma che mi spinge a ricercare oltre.

5. Esperienze indelebili

Confesso che la mia mente non vuol perdere il vizio, mentre sto facendo qualcosa, di continuare imperterrita a pensare a quel che verrà dopo. Col risultato di far male sia quel che sto facendo, sia quel che farò (quel che ho già fatto ormai è lì, cristallizzato, e non posso più farci niente). Ma non solo. Ad esempio, quando sono in giro per centri commerciali o supermercati, ma anche librerie o luoghi simili, mi stanco tanto, in particolare per una sensazione di perdere tempo che alimenta la voglia di tornare presto a casa, con tutto quel che c'è da sistemare! Ma poi, quando sono a casa non mi va di far niente, mi stanco solo all'idea di cominciare, e perdo tempo gingillandomi con piccole sistemazioni e passatempi banali. Amici e conoscenti mi trattano, di solito, come uno che fa tante cose, e forse è vero secondo la media, ma a me pare di perdere tanto tempo. Solo che lo faccio ancora con rammarico anziché con piena soddisfazione. Così, questa sensazione di attesa d'una conclusione immaginaria è diventata per me un valido punto di riferimento: finché penso a quello che dovrò fare dopo, anziché a quel che sto facendo, è ovvio che non ho ancora imparato a morire.

Un tempo, quando facevo assistenza attiva ai malati terminali, ero diventato capace di dimenticare quel che avrei dovuto fare in seguito per concentrarmi con pazienza e serenità sul momento presente, sull'hic et nunc, sulle necessità del malato e dei suoi familiari. Ne ho assistiti tanti e con molta intensità, e ho avuto la grazia di accompagnarne parecchi fin sulla porta, si potrebbe dire fino a girare per loro la maniglia e tirare i battenti, senza peraltro poter guardare oltre. Ma per quanto coinvolto, partecipavo pur sempre da semplice comparsa e mai da protagonista. A quei tempi ero ancora efficiente, non più giovanissimo ma neppure vecchio, con il futuro ancora davanti a me, e non alle spalle come ora. Potrei dire di essermi trovato più volte in rapporti confidenziali con sorella morte, ma quella degli altri, però, non la mia, che ancora non conosco neppure superficialmente.

Aiutare i malati terminali a vivere il meglio possibile (o il meno peggio, per drammatico che sia) diventa una straordinaria opportunità di condivisione, purché siamo coscienti che moriremo come loro. Ricordo momenti struggenti, coinvolti sia con chi percepiva già l'oltre, sia con chi vedeva spegnersi la vitalità di un proprio caro. Momenti di pathos indescrivibili ma indelebili, pronti a riemergere con altrettanto pathos al ricordo. Quelle notti con il respiro affannoso che via via si fa rantolo, quelle mattine col sole che sorge a sottolineare la conclusione di una vita. Quando si tratta di bambini, poi! Eppure la mia esperienza è andata perfino più in là, se penso di aver potuto conversare fino all'ultimo istante con mio fratello, che si è congedato con una battuta di spirito, e poi, come se non bastasse, qualche tempo dopo mi è stata concessa la straordinaria grazia di tenere fra le braccia la mia mamma nel momento del suo saluto definitivo.

Assistere i malati fa sperimentare tragedie che altrimenti sarebbero solo conoscenze teoriche. Per questo sento profonda gratitudine verso tutti gli ammalati che ho incontrato e conosciuto intimamente, perché con il loro coraggio, ma anche con le loro debolezze, mi hanno impresso nel cuore un segno indelebile. L'esperienza mi ha insegnato tante cose. Per esempio, ho capito che occuparsi degli altri è anche occuparsi di se stessi, per scoprire e approfondire il senso della vita, per lasciarsi aiutare da coloro che hanno bisogno d’aiuto. Insomma, ho ricevuto assai più di quanto dato. O meglio, non lo so, non lo posso dire perché conosco solo quello che è giunto a me, e non agli assistiti e loro familiari. Fatto sta che quel che ho ricevuto mi appare di gran lunga più abbondate della fatica fatta.

Guardare in faccia la morte, ripetutamente, quasi a renderla un'abitudine, anche se soltanto quella che riguardava altri, mi ha segnato in modo indelebile. Si potrebbe dire che in quelle esperienze ho imparato il senso della genialità eucaristica: non bisogna guardare a Cristo, bensì mangiarlo e metabolizzarlo fino a sentirlo parte di noi, vivo dentro di noi, trasformato in noi. Lo stesso si può dire per la morte altrui: bisogna guardarla in faccia con profonda partecipazione, con tutta la sofferenza che si avverte e senza timore di sentirsi straziati, per poterla interiorizzare nel proprio intimo fino a sentirla anche propria.

Grandi santi o pensatori hanno parlato e scritto della morte in modo toccante, e nel mio piccolo ho cercato di fare altrettanto raccontando in un libro gran parte delle più significative esperienze. Ma ora capisco che scriverne può servire a comunicare fatti e riflessioni, ma non è sufficiente per imparare a morire. Devo trovare pensieri, sensazioni e parole in sintonia con la mia morte personale. Mi piacerebbe scoprire un modo positivo di affrontarla, con desiderio di mostrarlo agli altri. Credo che solo così la morte sarà feconda. Questo studio è tentativo di capire meglio: mi sento come un esploratore che va in avanscoperta di quello che non si può neppure immaginare, solo con la speranza di poter capire qualcosa, prima o poi.

Nei lunghi anni dedicati all'assistenza la cosa che più mi è rimasta impressa è la sensazione di fare qualcosa che serve, qualcosa che sostiene concretamente chi è in difficoltà, che aiuta a mantenere la dignità, ad avere una qualità di vita almeno sopportabile, finché è possibile. Mi sono reso conto che in quelle occasioni la sensibilità si affina al punto da riconoscere perfettamente quel che vale e quello che è secondario o inutile. Quando riuscirò a conquistarmi uno stato d'animo analogo nei momenti ordinari di vita quotidiana, allora penso che potrò dire di aver cominciato a imparare. Qualche volta ci provo: questa mattina, ad esempio, ho impiegato molto tempo a uscire dal sonno e prepararmi alla giornata. Ho poltrito a letto, in bagno mi sono mosso con calma, ho fatto un'abbondante colazione seduto a tavola e non saltando qua e là come di solito, mi sono perfino attardato a riguardare talune fotografie di nipoti e bisnipoti appese alle pareti. Ho fatto tutto perdendo tempo a più riprese, potrei dire. Sto forse imparando qualcosa? Chissà!

In fondo, mi dico, la morte non è altro che il sigillo di una realizzazione. Perché allora temerla al punto da rifiutare di parlarne, visto che non si può rifiutare d'incontrarla? Perché non attenderla come un amico che vuole accoglierci in casa sua? Imparare a morire significa diluire la morte nel tempo, lasciandola avanzare a poco a poco e intrecciandola quindi con la vita. Giorno dopo giorno perderò sempre più la mia autonomia fino a partire per il viaggio verso l'altrove assoluto. Se provo a chiedermi quando, come e dove mi piacerebbe morire mi accorgo di non avere risposte pronte. Rifletterci è forse un modo per imparare. Intanto la sera, ogni sera, non rinuncio a ricoprire gli occhi con le palpebre, non mi ribello a lasciarmi immergere nel sonno. Forse sto tranquillo perché immagino che sia solo per qualche ora? E che ne so? Come faccio a esserne certo? E perché talvolta mi abbandono al sonno con grande soddisfazione, quando mi sento stanco? E come mai, chi è stanco di vivere, si aggrappa spesso e con ostinazione a una vita che fa disperare?

Insomma, vogliamo imparare a morire, oppure tenerci occupati per non pensarci? Mi piacerebbe saperne parlare con espressioni poetiche, ma temo di scadere nel banale e nel kitsch. Che potrei fare se non so che fare? Aspettare? Rinunciare a imparare? Un bell'affare, non c'è che dire: posso solo poltrire e mettermi a dormire. E forse, chissà, sognare d'imparare a morire.

Intanto mi accorgo che un'altra giornata è finita, secondo le sue inesorabili abitudini. Fra un po' andrò a letto e mi addormenterò: sarà un'altra prova generale.


Allenamenti

Anche stasera il sole è tramontato
e la notte s’appresta ad allenarmi
(come sempre) al sonno della vita.

Lo fa con dolcezza, ben attenta
a non intimorirmi, a non impormi
costrizioni traumatiche e violente.

Mi tenta col torpore, mi accarezza
le palpebre con quella sonnolenza
pigra alla veglia eppur così invitante.

Le membra distese lì, sul materasso
come si sta bene nel mio letto
dopo giornate vissute intensamente!

Così ogni notte si conclude
il percorso di tutta la mia vita
e ogni sera, direi, morir m’è dolce.

Quanto sarà gentile il grande sonno
la sera che mi prenderà per mano
al compiersi del giorno dei miei anni?

Chissà! Da parte mia
ogni sera coltivo l’accoglienza
perseverando nell’allenamento.

6. Tutto più bello

Alcuni interlocutori mi hanno scritto che non imparerò continuando a riflettere e scrivere, perché "imparare a morire non può essere un percorso solo razionale". Sono perfettamente d'accordo, ma mi domando il perché di quel "solo". I miei modesti pensieri mi suggeriscono "non solo ma anche". Dobbiamo usarli tutti gli strumenti che abbiamo a disposizione, e credo che la ragione sia ingannevole quando le viene attribuita troppa importanza, come se tutto passasse attraverso di lei. Mentre è validissima se usata correttamente all'interno dei suoi limiti. E poi è una caratteristica talmente tipica della natura umana da non poterne assolutamente prescindere.

Per analogia, a mo' d'esempio, mi vengono in mente taluni che si affannano a proclamare l'elogio del silenzio, naturalmente parlandone con insistenza, senza rendersi conto che parlare del silenzio è già una contraddizione. Il no al razionale mi sembra qualcosa di analogo: non è forse essa stessa un'affermazione razionale? Anche quando mi trattengo in silenzio tra me e me, i miei pensieri si esprimono pur sempre attraverso canali razionali, e non potrei certo impedirmelo.

Che non si può imparare attraverso il riflettere e scrivere sono perfettamente d'accordo, e infatti cerco di osservarmi, di capire le sensazioni che emergono spontanee dal mio intimo, quelle sensazioni spontanee che possono svelare gli aspetti più nascosti del mio modo di essere, anche se poi ogni interpretazione resta comunque razionale. Il mio studiare, quindi, non s'identifica con questi scritti, che considero soltanto elementi paralleli, anche se hanno già assunto importanza primaria per le grandissime opportunità che mi offrono. Infatti, se non avessi cominciato a scrivere quel che il mio studiare mi fa rimbalzare in testa, non avrei ricevuto e non continuerei a ricevere tante considerazioni interessanti, e perfino scombussolanti.

Chi sono io, mi domando, per meritarmi tanta grazia di Dio? Taluni interlocutori mi hanno aperto il loro cuore con grande confidenza, come si fa quando la fiducia è totale. Più ancora dei contenuti, pur interessantissimi, mi coinvolge quel senso d’intimità che emerge dallo scambio di pensieri e sensazioni tanto personali. Valeva la pena di iniziare il particolare percorso di studio che ho intrapreso anche solo per questo. Tra l'altro, mi sembra una lampante dimostrazione che molti avvertono il bisogno di rapporti coinvolti, mentre abitualmente restano superficiali per un diffuso rifiuto di addentrarsi a fondo su argomenti come, appunto, il morire.

Sto lavorando su di me, cercando di percepire come sono fatto in profondità, e scrivo quello che è possibile sia per comunicare con gli altri, sia per capire meglio me stesso. E così, ad esempio, mi domando: perché, pur non dubitando minimamente che bisogna restare calmi di fronte alle provocazioni, reagisco talvolta con disappunto o rabbia? Che mi giova sentirmi ben consapevole che in certi momenti scabrosi è molto meglio tacere che voler dire la propria, quando poi magari non riesco a impedirmi di aprire bocca? Come mai sono convintissimo che bisogna aiutare tanti poveracci che vivono di espedienti, per non spingerli verso comportamenti illeciti, e poi reagisco talvolta con fastidio quando al semaforo un lavavetri allunga la sua spugna sul parabrezza?

Per verificare meglio le mie reazioni ogni tanto riprendo in mano delle pagine di letteratura ben note, e ce ne sono alcune che non riesco a rileggere senza commuovermi. Chissà se attraverso tali esperienze, volutamente ripetute, potrò imparare qualcosa? Per esempio "Addio monti", dai Promessi Sposi: Lucia non voleva, non era pronta, e si sentiva strappata al suo futuro, perciò, «seduta, com'era, sul fondo della barca, posò il braccio sulla sponda, posò sul braccio la fronte, come per dormire, e pianse segretamente». Anch'io non sono pronto, non mi sento pronto, piangerò anch'io, mi dico, se non saprò andare più in là. E intanto comincio a piangere leggendo. Altra pagina che sempre risveglia la mia sensibilità è il finale del Fedone, là dove Socrate dice: «non ci guadagno nulla a bere un po' più tardi, se non di rendermi ridicolo a me stesso mostrandomi cosi attaccato alla vita da cercare di risparmiarla proprio quando non resta più nulla». Una dimostrazione, per me, che qualcuno sa imparare a morire. Una terza pagina che mi tocca particolarmente è quella del Gabbiano Jonathan, quando racconta che «abbracciò con un ultimo sguardo il suo cielo dove aveva imparato tante cose, e fece prua verso l'alto». Sinceramente, la mia prua non so su quale bussola si stia orientando, ma indubbiamente l'alto mi attira.

Quel che più mi stupisce però sono le reazioni che provo ascoltando musica, che mi sembra possa aiutare moltissimo il distacco da quel che vale poco o nulla, per favorire un coinvolgimento con l'ambiente divino. E mentre credo che la fede finisca per farsi ingenua e superstiziosa se resta legata a criteri e linguaggi antropomorfici, percepisco la musica come strumento privilegiato di comunicazione tra la vita terrena e Dio, comunque inteso. Un linguaggio transumano, tanto che prendendo a prestito i versi di Gozzano mi verrebbe da dire che «la musica divina m'è come ai nervi inquieti un getto di morfina», perché di fronte a inquietudini e scoraggiamenti la sento agire proprio come un gradevole distensivo.

La musica, in genere, si può considerare un'esplosione di vita, anche là dove esprime eventi mortali. Mi riempiono di emozioni le Passioni di Bach e non meno i requiem di Mozart o di Verdi. Per non parlare della marcia funebre di Beethoven, o quella di Chopin, o il New Orleans Function di Armstrong. E le morti melodrammatiche (Isotta, Violetta, Desdemona, Mimì, Butterfly, Tosca)? Mi accorgo di aver indicato solo donne, ma non è colpa mia se quelle maschili fanno meno spettacolo. Nei Puritani c'è chi proclama: «bello è affrontar la morte cantando libertà», ma forse è bello per i poeti che declamano quella altrui, e non la loro. Molto suggestiva "la morte e la fanciulla" di Schubert, che oltre alla musica divina mette in bocca alla protagonista parole rassicuranti: «Dammi la tua mano, bella creatura delicata! Sono un’amica, non vengo per punirti. Su, coraggio! Non sono cattiva. Dolcemente dormirai fra le mie braccia!».

La musica mi dilata le arterie, mi fa venire la pelle d'oca, mi rigenera il cervello, mi riempie di stupore. E in proposito, potrei dire che da qualche tempo mi meraviglio di tutto, anche di meravigliarmi. Una volta mi commuoveva l’eccezionale, ora anche il normale: mi sembra tutto più bello, e mi domando se tale stranezza è segno di un forte attaccamento o di un maggior distacco. Ci sono ad esempio dei mobili e oggetti di casa piuttosto normali, direi, che ho sempre visto come se niente fosse, mentre oggi mi sono accorto quanto sono belli. Per esempio le gambe tornite del mio comodino che mi si presentano davanti agli occhi quando mi distendo sul fianco, a letto, quasi a volermi costringere a guardarle. Che splendore quelle venature di noce! Quanto al bidet della mia stanza da bagno che mi s'impone allo sguardo appena vi entro: forse qualcuno sorriderà a sentirmi dire che ne sono affascinato non tanto per la sua linea orizzontale ma nello sviluppo verticale, per quella perfezione del tondo, nell'armonia della sua pancia. Sarà bello per caso, mi domando, o per sbaglio? Chi lo ha disegnato sapeva di costruire bellezza? Non è un bidet come tutti gli altri, può darsi che sia nato così senza che il suo ideatore si rendesse conto di costruire un capolavoro, ma io me ne sono accorto. Per non parlare dell'elegante boccale col manico dal quale sto bevendo una tisana: una bellezza normale che proprio per questo, forse, vale di più.

Tutto più bello: anche la morte? Non so, non sono abbastanza esaltato per dire subito di sì. Però, forse, un po' è vero. Anche la morte, col passare del tempo, a me sembra perdere quell'aspetto antipatico che le viene attribuito. «'A morte 'o ssaje ched'è?... è una livella» diceva Totò, mentre Pirandello mette in bocca al fu Mattia Pascal «nessuno, nessuno si ricordava più di me, come se non fossi mai esistito». Mi domando quanto avesse ragione Metastasio nel dire: «Non è ver che sia la morte il peggior di tutti i mali».

Oggi si teme il rischio del nichilismo, ma mi azzarderei a dire che personalmente non mi riguarda perché trovo tutto così stupefacente, così pieno di significato! E mi pare abbiano un senso perfino cose di cui non mi importa proprio nulla. Anzi, sarà un paradosso, ma potrei dire che sono moltissime le cose che mi piacciono e tuttavia non m'interessano più.


7. Meglio morto o infermo?

Mio figlio Filippo, 47 anni, sposato da 17 e non separato (è già una notizia), con due figlie di 15 e 9, ha una malattia genetica di quelle che la medicina ha scoperto da poco. Nessun problema fino a qualche anno fa ma ora cammina male, con le canadesi, perché le sue gambe si sono messe a fare i capricci. Uno sviluppo lento, ma cure non ce ne sono e col passare del tempo non potrà che peggiorare. Psicologicamente la vive bene, anzi, direi molto bene e ne parla con una vena d'umorismo, con l'aria di dire: che potrei fare d'altro? Ma la situazione è pesante, si muove a fatica, non guida più l'automobile e quindi non può uscire di casa se non accompagnato da qualcuno. Recentemente è stato per due mesi e mezzo ricoverato al Santa Lucia per riabilitazione, e quando lo andavo a trovare mi diceva regolarmente: «quanti ce ne sono qui che stanno peggio di me!». In quella struttura i terapisti sono molto bravi, e ora che è tornato alla sua vita quotidiana si notano dei miglioramenti. Quanto dureranno?

La mia amica Paola ha più o meno la sua stessa età, anche lei sposata e non separata, con cinque figli. Uno di questi, tredicenne, lo scorso anno si è schiantato contro un palo su una motocicletta che aveva preso a prestito: che tragedia! Con lei ho un rapporto tenerissimo e straordinariamente confidenziale, la conosco da 36 anni, cioè da quando era una ragazzina, ed è proprio come se fosse mia figlia, con in più l'aggiunta che me la sono scelta. Non ci vediamo spesso, ma è come se ci vedessimo tutti i giorni. L'ho incontrata l'altra mattina all'Idromarket, in mezzo ai banchi della verdura, e mi ha chiesto notizie di Filippo.

Eravamo circondati da gente che si muoveva di qua e di là ma non ci sentivamo disturbati. Le dicevo quello che sapeva già, e lei mi guardava con la fronte un po' aggrottata e gli occhi che tendevano a sciogliersi: si vedeva che il suo pensiero spaziava dal figlio mio al suo. Improvvisamente se ne è uscita con una domanda inattesa: è meglio veder morire un figlio, o vederlo infermo per una malattia genetica degenerativa? Paola è sempre imprevedibile, ma non pretendeva certamente di fare una graduatoria. Aggiunse che per un genitore veder morire un figlio è quanto di più innaturale esista, e tuttavia la morte è un colpo secco, come una frustata. Poi bisogna metabolizzarla, è vero, con il ricordo che fatica ad affievolirsi rendendo difficile e faticoso ritrovare l'equilibrio, però anche rivivere ogni giorno un dramma a puntate…..

Quel clima così emotivamente coinvolto non ci ha impedito il sorriso: non vorremo mica discutere se il mio dolore sia più o meno forte del tuo! Ma la mia mente, a quel punto, si è messa spontaneamente a spaziare oltre, al ricordo di una coppia d'amici con cinque figli che ne hanno visto morire uno drogato per overdose, e più tardi un secondo alcolizzato. E mi dicevano che la sofferenza peggiore non era quella per le loro morti, ma per il riemergere continuo, nei ricordi, di numerosi episodi squallidi e scoraggianti, legati ai comportamenti insensati dei drogati e degli alcolisti: menzogne, furti, crollo di fiducia, liti furibonde. Paola non ha più suo figlio e prova un vuoto incolmabile, però può ricordarsi spesso dei tanti momenti di tenerezza vissuti accanto a lui, e anche delle soddisfazioni che ha saputo darle (era musicista di talento, aveva il cosiddetto orecchio assoluto e prometteva una brillante carriera). Quanto a me, posso essere preoccupato per il futuro del mio, ma intanto continuo a godermi un rapporto coinvolto con lui. Ma quei due poveri genitori (ora morti entrambi) non potevano neppure ricordare i loro figlioletti senza sentire emergere sensazioni sgradevoli e angoscianti. Come dire che i dolori possono essere diversi per intensità ma anche per qualità: ci sono quelli strazianti ma puliti, che consentono di mantenere vivo il ricordo di momenti belli e nutrienti, e altri che in più vengono sporcati da elementi infami che li rendono proprio insopportabili.

Sarai il bastone della mia vecchiaia, dicevo a Filippo quand'era bambino. Ora ne occorrono due a lui, di bastoni, e li usa per sé. Il dispiacere, il dolore di vederlo infermo, non m'impedisce la felicità di poter continuare con lui un rapporto coinvolto, e di provare gratitudine per il suo affrontare serenamente le difficoltà, senza gravarle di pesi psicologici negativi. Parlarne con Paola mi ha aiutato a confermare ancora quel che già sapevo: se vedere il bicchiere mezzo pieno o vuoto è sempre un parametro valido, meglio piangere perché le rose hanno le spine o rallegrarsi perché le spine hanno le rose?

Mi sono ricordato di aver sentito dire, non so da chi ma certamente da un saggio, che al mondo c'è una quantità fissa di dolore. Spero che sia vero: significherebbe che quando soffro tolgo un po' di sofferenza a qualcun altro. Geniale! Esserne coscienti aiuta a sopportare meglio le avversità. (Per quanto riguarda la gioia, invece, credo che valga tutt'altra cosa: di gioia non ce n'è mai troppa, è una realtà in espansione che esprimendosi produce sempre nuova gioia. Perciò gioire non mi turba).

Confesso comunque che tempo fa, quando ho scoperto di avere un figlio con gravi problemi di salute, ho vissuto un periodo di turbamento che non mi lasciava in pace. Tra l'altro la copertura previdenziale da parte dell'INPS è scarsissima, con relativi pesanti problemi economici difficilmente risolvibili. Perciò, prima di ritrovare una sufficiente serenità d'animo ho sperimentato sgradevolissimi sensi d'angoscia. Ricordo che quando vedevo qualcuno ridere avrei voluto dirgli: che fai? Ridi? Non vedi che io sono disperato? Ma quel che vive nascosto nell'intimo nessuno lo può vedere. Osservando i volti che incrocio per strada mi domando spesso quali stati d'animo ci saranno dietro le espressioni di facciata. E poi mi chiedo: che penseranno altri guardando il mio?

Per fortuna mi sono ricordato che vano è tentare insensatamente di scacciare i pensieri insopportabili, col probabile risultato di sentirli rinforzarsi ancor più. Ne sono uscito cercando di osservarmi e percepire il senso profondo dell'evento vissuto senza dimenticare, malgrado la sofferenza, che ogni esperienza è comunque preziosa, perché fa sperimentare in prima persona ciò che altrimenti si potrebbe conoscere solo in teoria, o per sentito dire. Insomma, siamo tenuti a vivere al meglio quel che la vita ci offre, bello o brutto che sia. Altrimenti avanzerebbe il peggio, è ovvio: rifletterci una volta ancora rientra nel piano di studio per imparare a morire E siccome non intendo marinare la scuola cerco di ripassare attentamente la lezione.

Immerso in tutto questo travaglio mi sembra normale sentir riemergere un'altra esperienza vissuta parecchi anni fa. Gianni, un mio conoscente colpito da sclerosi multipla, riusciva ancora a muoversi per casa appoggiandosi ai mobili e alle porte. Si svegliava presto la mattina e si trascinava in bagno da solo, si arrangiava davanti al lavandino e poi si sedeva sulla tazza. Fin lì tutto bene (si fa per dire), ma poi non riusciva a spostarsi sul bidet perché la tazza era troppo bassa per consentirgli lo sforzo necessario. Il rischio era quello di cadere a terra e d'incastrarsi tra i sanitari, cosa già accaduta in passato con sgradevoli conseguenze. Così usava aspettare con pazienza che si svegliasse qualcuno per farsi aiutare (perché non voleva disturbare). Un giorno però l'ho trovato particolarmente di buon umore. Stamattina, mi ha detto appena mi ha visto, sono riuscito a spostarmi sul bidet da solo, che bellezza! Era raggiante: tutto sommato la felicità è una piccola cosa, come dicono i poeti. Per quanto ho capito di lui, direi che in quei lunghi anni di tragedia sviluppatasi con lentezza esasperante, aveva imparato a morire. Mi domando se riuscirò a imparare anch'io che sto bene, fin troppo bene.


8 Il proprio ruolo

Tra i lettori che interagiscono attivamente con questo mio studio alcuni insistono nel dire che è fondamentale imparare a vivere, più che a morire, ma credo che tutto sommato sia la stessa cosa, o se si preferisce due facce della stessa medaglia. Imparare a vivere non è fare come se la morte non ci fosse, cosa che, al contrario, significherebbe proprio non saper vivere, significherebbe scegliere chimere e illusioni. Intrecciare insieme vivere e morire, invece, credo sia il modo migliore per sviluppare pienamente la propria vita, nei limiti del possibile. Secondo me, diluire la morte nel tempo significa vivere ogni giornata traendo insegnamento sia dagli aspetti positivi che negativi, ma con la chiara consapevolezza che il vissuto non si può incamerare come un possesso, che i giorni passano e svaniscono, ricordandoci che nella vita il già e non ancora hanno una durata complessiva, e che il succedersi dei minuti muove il cursore con regolarità impressionante. Mi rendo conto di essere ripetitivo, talvolta, ma è anche ripetitivo il tempo con il suo scorrere inesorabile, come dimostrano la Luna e la Terra con il loro prendersi in giro permanente. Si può dire che la vita ripropone monotonamente se stessa, anche se ogni volta il vecchio riprende a essere nuovo. Spero che valga anche nella stesura di questo mio lavoro.

Per cominciare a stringere (si fa per dire) mi domando: sto cominciando a imparare qualcosa? Ho fatto qualche passo avanti? Mah! Le condivisioni, di qualunque tipo, sono il migliore humus per coltivare lo studio e aiutare il mio individualismo a coinvolgersi con quel che va oltre i miei ristretti confini. Da alcuni mi sento capito, intendo dire in profondità, e questo significa che qualche porzione di me ha varcato i confini della mia prigione, cosa che mi autorizza a sperare che altro seguirà, se è vero che a chi ha sarà dato e sarà nell'abbondanza.

Liberi dai possessi, in ogni senso, significa non voler trattenere nulla per sé, significa disponibilità a consegnare tutto per giungere alla pienezza di vita. Per questo vivere, in senso compiuto, impone d'imparare a morire, ma ovviamente sono assai importanti le motivazioni. Ammesso che, prima o poi, si riesca a raggiungere un risultato soddisfacente, nel mio caso, mi domando, sarebbe per fuga da quel che non mi piace o per orientamento verso quel che mi attrae? Molti pensano che credere in una vita futura possa favorire il distacco da questa, ma non ne sarei così convinto. Il rifiuto della morte appare come atteggiamento spontaneo, indipendentemente da qualsiasi ipotesi teorica. Se poi ci si lascia influenzare da convenienze, di qualsiasi tipo….. I mistici medioevali dicevano che chi cerca Dio per paura dell'inferno è uno schiavo, e chi lo cerca per guadagnarsi il paradiso è un mercenario. Schiavi e mercenari non sono persone libere, ma individui legati alla propria identità, alla quale si sentono aggrappati ossessivamente. Ma chi vorrà conservare la propria vita la perderà, dice il vangelo.

Credo che l'individualismo sia un argomento chiave, e mi propongo di approfondirlo meglio più avanti, quando questo studio si avvierà, spero, verso una conclusione. Ma intanto, mi domando, quanti aspetti descritti come elementi di fede sono in realtà difese del proprio io? Se la mia fede fosse legata al guadagnarci qualcosa penso che la vedrei vacillare pericolosamente. Mi sembra invece che, in molti casi, l'attaccamento al proprio io e ai propri criteri antropomorfici emerga prepotente. Pur considerando tanti punti interrogativi sulla mia capacità di comprendere, talvolta mi sembra proprio che si parli di fede senza sapere quel che si dice. Per fare un esempio curioso, ho ritrovato in casa un'immaginetta di quelle che, soprattutto un tempo, si usavano per ricordare i morti. Si tratta di un aviatore caduto con il suo aereo, e la frase ricordo recita: su infausto velivolo raggiunse il paradiso. Infausto? Mah! Sarebbe facile fare dell'ironia, ma preferisco lasciare i commenti alle fantasie dei lettori. Altri esempi si potrebbero trarre da certe preghiere liturgiche. Ne ricordo una che recita: O Dio, che ci dai il privilegio di chiamarti Padre…. Mi domando: per un figlio, buono o cattivo che sia, è forse un privilegio chiamate padre il suo genitore? Non suona come confessione che non si crede realmente a quello che si dice?

Per aggiungere un altro esempio con più ampi contorni, ricordo di aver pranzato, circa trent' anni fa, con un alto prelato vaticano che aveva dovuto dimettersi dal suo prestigioso incarico per intrighi di curia. Avevamo mangiato un ottimo pesce e bevuto un vino generoso. Il sole filtrava dalla finestra e gl'illuminava il volto dandogli un aspetto sognante. A un certo punto, ricordo bene, si è messo a dire con aria ispirata: non vedo l'ora di morire, così finalmente riuscirò a capire come stanno veramente le cose! E lo ha ripetuto più volte.

Una battuta, ovviamente, che va benissimo per quello che vale, ma io l'ho conservata nella mia mente come invito a riflettere, e nel tempo mi è servita più volte da parametro. La mia fede non si basa per nulla sull'ipotesi o la speranza di una mia sopravvivenza personale, ma sulla fiducia che il Dio di tutto l'insieme vale più dell'individuo che mi rappresenta. Non la mia ma la tua volontà è una frase che non mi pesa dire, perché ho fede che sia il meglio per tutti. Ma se devo riflettere sull'ipotesi di un'altra vita la prima cosa che mi vien da credere è che a quel punto i miei interessi saranno rivolti a ben altro che alle beghe terrene, e la sola ipotesi che una volta morto possa desiderare, in primis, di conoscere le manovre degli intrallazzatori mi fa sorridere. Quel monsignore, ora defunto, era un uomo di finissimo spirito, e le battute talvolta esprimono brillantemente pensieri ben più profondi. Ma possono anche servire a interrogarsi su quanto si crede in quel che si dice.

Zavattini sosteneva che a parole tutti sanno di dover morire, ma ciascuno nel suo intimo, magari senza confessarselo, pensa che, chissà, forse qualcuno riesce a scamparsela. In un suo breve racconto il protagonista aveva saputo, non importa come, quale fosse la data e l'ora precisa a lui destinata, e così si è fatto trovare a letto col volto sbiancato e il respiro trattenuto. Risultato: la morte, giunta all'appuntamento, si china su di lui e dice: guarda guarda, è già morto. E se ne va.

Tutto serve a riflettere, e ingannare la morte può essere un'idea intrigante. Ma in un romanzo di fantascienza, però! Se vogliamo essere realisti, invece, l' argomento è da prendere sul serio, perché la morte non fa sconti a nessuno. Un antico insegnamento orientale sostiene che il nostro individuo non è formato da un solo io, ma da tanti piccoli io che si alternano sulla poltrona di comando a seconda dei momenti e delle circostanze. Capita così di assumere un qualche impegno con la massima determinazione, ma di colui che comande in quel momento. Successivamente poi, come in talune democrazie, si trova al comando qualcun altro che non intende affatto rispettare gli impegni presi dal predecessore. Poi però, ancora più tardi, anche costui verrà sostituito da qualcuno amico del primo, e allora sopraggiunge la vergogna, magari di notte quando le dimensioni delle figuracce appaiono ingigantite. Ma poi (per fortuna?) sulla poltrona di comando tornerà un altro ancora e tutto si dimentica. Tanti piccoli io, amici e avversari, proprio come nella politica. Del resto, a Gesù che gli chiese di rivelare la sua identità, l'indemoniato rispose: "siamo legione" proprio per sottolineare quella frantumazione interna che è una caratteristica diabolica.

La mia impazienza caratteriale mi spinge sovente a essere intempestivo, sono almeno 50 anni che me ne sono accorto, tanto è vero che, mi ricordo, avevo appeso un cartello davanti al letto con su scritto: quando ti sembra di averci pensato abbastanza, pensaci ancora. Un'autoesortazione che mi segue da allora, da quando mi ero detto che non posso continuare imperterrito a fare delle sciocchezze. Ma molto spesso continuo a non tenerne conto, perciò sarei tentato di chiedermi: quale io me lo dice? E quale mostra poi di volersene dimenticare? E quanto rapidamente si alternano? Osservandomi cerco di capire se qualcuno ha per lo meno cominciato a resistere per lungo tempo (almeno un governo di legislatura, si augurerebbe un politico italiano).

Gli eventi incalzano, la cronaca offre spunti stupefacenti al punto che il Papa si è dimesso: mi domando se Joseph sta anch'egli studiando per imparare a morire. Molti dicono, taluni con ansia, che si tratta di un fatto epocale dalle conseguenze imprevedibili, ma tra le 19,59 e le 20,01 del 28 febbraio la luna non ha mutato il suo volto, e il primo marzo il sole è sorto imperterrito all'ora prevista. Forse, mi dico, il Papa ha deciso di andare oltre, di travalicare il suo ruolo, per sottolineare il vangelo là dove dice che a fare solo quel che è il proprio dovere si resta servi inutili. Un grande insegnamento, indipendentemente dalle intenzioni che solo lui conosce: finché facciamo quello che dobbiamo fare non assumiamo atteggiamenti creativi, mentre la potenzialità divina si sviluppa nel fare il di più, nel costruire l'oltre.

Come potrei andare oltre il mio piccolissimo ruolo? Da tempo mi dico che ormai devo fare quel che se non faccio io non può fare nessuno. Per questo motivo, soprattutto, mi sono messo a scrivere, per fissare quelle emozioni provate personalmente, nell'intimo, che altrimenti andrebbero perdute per sempre, lasciando ad altri valutare se abbiano una qualche importanza. Mi sono accorto che ricordare il passato insegna qualcosa di nuovo, al presente, e per uno che si propone d'imparare l'occasione è ghiotta.

9. Di tutte le età

L'altro giorno ho incontrato un vecchio che camminava lentamente col bastone, curvo su se stesso, trascinando i piedi. Come sono fortunato a vivere la mia età con acciacchi e disturbi piuttosto lievi! Quel vecchio trasmetteva sofferenza e tristezza, ed è nel sentirmi stringere il cuore che l'ho riconosciuto: eravamo stati amici, quarant'anni fa, per poi perderci di vista. A quei tempi lui era un ragazzo di oltre dieci anni più giovane di me, ma poi, evidentemente, la salute non l'aveva assistito. Incontrarci di nuovo dopo tanti anni è stata una festa, ma la conversazione è durata poco perché, confesso, non mi è stato né facile né spontaneo chiacchierare con un vecchio cadente parecchio più giovane di me. Non ero preparato e, mi vergogno a dirlo, non sono stato capace di superare un certo imbarazzo.

Che fortuna essere vivo e in buona salute a un'età che, soprattutto nel passato, era preclusa ai più! Mio padre è morto a 75 anni, mio nonno a 72, mio fratello a 58. Se guardo alla storia mi accorgo che quasi tutti i personaggi famosi sono morti più giovani di me, e taluni molto molto più giovani. Garibaldi a 75 anni, Leonardo e Mazzini 67, Beethoven 57, Dante e Giulio Cesare 56, Molière 51, Oscar Wilde 46, Raffaello 37, Mozart 35, Masaccio 27, Goffredo Mameli appena 22 e Giovanna d'Arco addirittura 19. Che cosa ne ho fatto di tutti gli anni che mi sono stati concessi in più? Come ho utilizzato le straordinarie opportunità che ho avuto a disposizione? Chissà se quei grandi personaggi, che hanno lasciato un segno nella storia, avevano anche imparato a morire, oppure se sono morti così, "alla come viene"? E che dire di tutte le persone che oggi non ricorda più nessuno? Sono forse vissute e morte invano, quasi non fossero mai esistite?

Se torno col pensiero al mio passato ricordo che a 19 anni ho incontrato l'altra metà di me stesso, a 22 ero già sposato, a 27 stava per nascermi una seconda figlia. A 35 ero campione italiano di regolarità. A 37 avevo scritto e pubblicato il mio primo libro: Come si vince un Rally, e anche il secondo di tutt'altro argomento: La verità con la v minuscola, che nell'ottica odierna potrebbe essere letto come un timido iniziale accesso allo studio per imparare a morire. A 46 ero già nonno, durante la cinquantina venivo assorbito a tempo pieno dalla Comunità del Mattino, a 67 gestivo il magazzino per l'Unicef nel quale, durante l'autunno, c'era da lavorare oltre 12 ore al giorno compresa la domenica. A 75 ero, finalmente, bisnonno.

Invecchiando, che cosa è cambiato dentro di me, in meglio o in peggio? Ho fatto tante stupidaggini che vorrei non aver fatto, e che oggi correggerei, se potessi. Ma ho vissuto anche entusiasmanti avventure condite da momenti indelebili. Non rimpiango né rinnego nulla del mio passato, e capisco che la mia realtà presente è frutto di tutto quanto mi è accaduto, nel bene e nel male. Però oggi non vorrei tornare indietro per nessun motivo. Se fossi morto a 19 anni non avrei neppure iniziato a vivere sul serio, a 22 avrei lasciato un progetto matrimoniale incompiuto, a 35 un effimero successo in uno sport minore, a 37 un tentativo forse velleitario di curiosare nelle dimensioni incommensurabili, a 46 un'ipotesi di nonno tutta diversa da quella sviluppata in seguito. Oggi capisco che come nonno sono stato poco brillante perché ho sempre trattato i miei nipoti alla pari, almeno nelle intenzioni, mentre i bambini forse preferiscono sentirsi protetti da atteggiamenti paternalistici. Risultato: l'affetto è grandissimo, ma la confidenza non troppo intensa. Tra 50 e 65 anni l'esperienza della Comunità del Mattino: stupefacente, preziosa, determinante per imparare a vivere, ma non solo, anche per i suoi stimoli alla voglia di imparare a morire. Però, sotto altri aspetti, anche un fallimento, sia pure di grande spessore. A 67 mi sentivo troppo giovane per essere vecchio e troppo vecchio per essere giovane, ma la voglia di andare avanti continuava a prevalere su quella di voltarmi indietro. A 75 l'arrivo dei bisnipoti mi ha trasmesso il senso di un surplus che mi è stato concesso gratuitamente. In teoria cerco di vivere ogni mia giornata come se fosse l'ultima, mentre in pratica dimentico spesso di essere vecchio, salvo poi rientrare in me dopo aver fatto qualche ennesima sciocchezza.

Ogni tanto riesco ad annoiarmi, e questa è una bella conquista, ma la mania di voler essere efficienti è dura a morire. Per fortuna, mentre una volta combattevo volentieri per ottenere "giustizia" (si fa per dire), oggi dover affrontare contrattempi e fastidi mi pesa sempre più, così riesco ad evitare talvolta di sostenere questioni di principio. Tempo fa, ad esempio, sono stato uno dei tanti che hanno ricevuto un'assurda cartella esattoriale, dopo di che sono riuscito a dimostrare che non mi riguardava e a farmela cancellare, ma ho dovuto recarmi più volte negli uffici addetti, protestare, presentare documenti, e alla fine, quando l’ho spuntata, mi sono sorpreso a dirmi: la prossima volta pagherò più volentieri il non giusto pur di risparmiarmi tutti questi fastidi. E non è il solo caso, anzi, quando sento spuntare ipotesi di problemi da affrontare a lunga scadenza, come ad esempio qualche manutenzione impegnativa della casa, poniamo il rifacimento del tetto che talvolta non si trattiene dal fare acqua da più parti, non manco di sentirmi preoccupato, salvo provare poi un senso di sollievo al pensiero che, se resiste ancora un po', probabilmente non sarò più io a dovermene occupare (un bel vigliacco, eh? nei confronti dei miei eredi!). In un certo senso, anche le scoraggiamento che provo ascoltando le pessime previsioni politico sociali, che sembrano preannunciare un futuro non proprio roseo, trova talvolta improvviso sollievo al pensiero che probabilmente me ne andrò prima che il peso diventi insopportabile. Come dire che, data la mia età, potrei mettermi a sedere sulla sponda del fiume per guardare con distacco il trascorrere degli eventi, che transitano verso un futuro non più mio. Ma il tarlo dell'efficienza mi gioca ancora brutti scherzi.

Conosco persone che dicono di annoiarsi perché non sanno che fare, e mi domando come sia possibile. Per quanto mi riguarda, capita spesso di sorprendermi a sperare disperatamente di potermi annoiare un po', ma sputa fuori sempre qualcosa di nuovo per cui mi ritrovo la mente occupata a pensare a quel che dovrò fare in seguito. Insomma, se l'aspirazione ad annoiarmi è una speranza, riuscirci è piuttosto difficile. Più volte mi sorprendo a chiedermi come facevo un tempo a dedicare tanto tempo al lavoro per guadagnarmi la pagnotta. Ricordo che per un certo periodo uscivo la mattina che i bambini dormivano ancora e rientravo la sera che dormivano già. Oggi che non faccio più nulla sono sempre impegnatissimo, e qualche volta mi viene l'affanno. D'altra parte è pur vero che ci vuole tanto tempo per alzarsi dal letto, vestirsi, lavarsi (il minimo necessario), farsi la barba, sgombrare e ripulire le vie interne, farsi lo shampoo (questo non lo dico per me perché ho la fortuna di essere calvo). E poi vestirsi, aprire le finestre, pulire casa, andare a far la spesa, cucinare, mangiare, lavare i piatti!

La percezione del tempo che fugge si fa sempre più accentuata via via che accelera, anche se non accelera affatto ma continua imperterrito nella sua inesorabile monotonia. Non parliamo poi d'estate! Bisogna andare al mare, indugiare sotto l'ombrellone, fare il bagno, stare un po' a mollo, prendere il sole, rinfrescarsi sotto la doccia, sciacquarsi i piedi, tornare a casa, prepararsi da mangiare e poi, col caldo che fa, rassegnarsi a stendersi sul letto per fare che cosa? Un pisolino? Macché! Una dormita che dura ore. Lunghi giorni passano in un lampo e la sera il sonno si guarda bene dal ricordarsi di aver ricevuto nel pomeriggio le sue soddisfazioni. Fatto sta che insiste con la sua ingombrante presenza rendendo di fatto cortissime le giornate.

Al di là delle battute e delle metafore, sta il fatto che in una famiglia numerosa (tre figli, otto nipoti, tre bisnipoti e altri familiari di fatto) i problemi quotidiani non mancano mai, alcuni dei quali piuttosto impegnativi (per usare un eufemismo). Tenendo conto della stanchezza che accompagna tenacemente il tempo compresso della vecchiaia, talvolta avrei proprio voglia di fare solo quello che serve per sopravvivere. Ma sottrarsi alle circostanze non è possibile, altrimenti come si potrebbe imparare, non importa se a vivere o a morire?


10. Un magnifico rottame

Calò è il nome del più noto sfasciacarrozze di Roma, e nei suoi numerosi recinti sparpagliati qua e là ai margini della città si vedono enormi cataste di vecchie auto rottamate che hanno quasi un fascino artistico. La mia sposa invece, sebbene vecchia, per me continua a essere affascinante senza quasi, ma quando glielo dico lei mi risponde che si sente un rottame. Così ho scoperto, con gioioso stupore, che mi piacciono i rottami. E inoltre, per quanto mi riguarda, non potrei negare di sentirmi un rottame anch'io, forse non del tutto arrugginito me sempre rottame. Lei sostiene di essere un rottame felice, e perché la stessa cosa non dovrebbe valere anche per me? Oggi è di moda la proposta di rottamare l'usato per far posto al nuovo, ma noi siamo già oltre.

Talvolta, tanto per provocarmi, lei mi dice: quando mi porti da Calò? Io però le rispondo che, caso mai, andiamo a Porta Portese dove può darsi che per una vecchia me ne diano due più giovani. Ma lo dico a lei, così, per giocare un po', perché fossi matto! Già ci vuole del coraggio a litigare (tenendosi per mano) con una sola, mentre con due finirei per diventare un handicappato! Me la tengo stretta così com'è, la mia vecchia sposa, e quando si definisce un rottame non voglio contraddirla, ma non cesso di pensare che ci sono dei rottami magnifici.

Da giovani ci si plasma l'un l'altro, mentre con il passare degli anni diventa sempre più difficile far coincidere qualche nota della meravigliosa sinfonia, se ciascuno tende a svilupparla a lungo per proprio conto. Noi ci siamo sposati giovanissimi e abbiamo sempre lavorato assieme alla concertazione, senza trascurare le dissonanze che sono anch'esse musica, e quello che abbiamo scoperto seguendo ciascuno il proprio spartito personale, da un certo punto in poi lo abbiamo messo in comune. Forse è per questo che l'armonia non tramonta e la mia preziosa sposa prosegue imperterrita il suo mestiere di portavoce del divino. Almeno per me.

Potrei dire che sia lei il mio Cristo concreto, quello con cui devo fare i conti ogni giorno, quello che mi indica e ripropone incessantemente la strada. Non perché sia una persona eccezionale (lo è per me ma non per altri), ma perché bisogna fare concretamente i conti con chi ci sta di fronte, con chi condivide le nostre giornate, con chi percorre il nostro stesso cammino per uscire dalla prigione dell'individualismo e coinvolgerci con l'oltre, per proiettarci verso l'insieme ed entrare nella dimensione divina, per riuscire ad assumere un'identità più ampia di quella che ci consente solo di morire.

Anche se ci siamo plasmati assieme, su certe cose ragioniamo in maniera talmente diversa che talvolta sembrerebbe impossibile capirsi. Eppure andiamo così d'accordo! Una contraddizione? Certamente, ma proprio qui sta il miracolo: una sintesi che privilegia radicalmente i valori d'insieme lasciando alle contraddizioni significati soltanto marginali. Quante cose mi danno fastidio di lei, anzi, per la verità, non solo di lei ma di chiunque. Ma che bellezza constatare che per quanto riguarda lei il fastidio diventa non soltanto sopportabile, ma perfino divertente. Le cose positive del nostro rapporto, quelle che mi fanno vivere in un clima di gratitudine permanente, non si lasciano più turbare da ciò che mi infastidisce.

Talvolta lei m'interpella o mi risponde in modo aspro e perfino scortese, ma io non sono da meno, e un giorno uno dei nostri adorabili nipotini mi ha detto di averlo notato, mostrando disapprovazione. E allora gli ho spiegato che quell'aspetto a lui sgradito è in realtà garanzia che tra noi non ci sono dietrologie. Così quando sento la mia dolce sposa esprimere apprezzamenti o valutazioni positive posso crederle senza riserve, perché so che non me le manda a dire. Le forme di comunicazione senza veli, secondo noi, alimentano fiducia e serenità, mentre stare attenti a come si parla può favorire, al contrario, punti interrogativi e sospetti. Non è forse vero che sovente, dietro i sorrisi di facciata, covano sotto sotto impulsi di rabbia, frustrazioni, voglie di rivalsa?

In un rapporto così intimo, come quello coniugale, pretendere di non litigare sarebbe utopia, anzi, quando si va d'accordo si litiga molto di più, perché tacere pro bono pacis non paga, dal momento che i problemi non risolti prima o poi riaffiorano. L’importante è litigare bene e non in modo distruttivo, non sparandosi contro con la feroce intenzione di prevalere, ma tenendosi per mano, il che significa tener conto di tutto il positivo che unisce per potersi scontrare tranquillamente sulle divergenze, e solo su quelle. A noi sembra il modo migliore per andare d’accordo, ma concretamente e non per modo di dire. Si potrebbe dire che amare, di fatto, è concedere il diritto di farsi maltrattare, ma anche accogliere e lasciarsi inondare da emozionanti sorprese capaci di spiazzare i luoghi comuni. Sorridi e riceverai sorrisi, dice uno dei tanti manuali della felicità, e un altro suggerisce di coltivare la gratitudine. Noi siamo così fortunati da continuare a sentirci grati l’un l’altro, fino al punto da immaginare il paradiso come scambio di gratitudini.

Nella lingua greca antica, oltre al singolare e al plurale, c'era anche il duale. Chissà perché, mi domando, tale abitudine è stata poi abbandonata. Il duale infatti non è né singolare né plurale, ma indica un'unità di coppia che si adatta particolarmente al rapporto coniugale. Io e te siamo noi, ci diciamo spesso, mentre ormai ciascuno di noi due, da solo, non è proprio nessuno. Il singolare non ci riguarda più, e il plurale è troppo dispersivo per il nostro amore. Ci sentiamo un duale.

Si potrebbe dire che l'andamento standard di un rapporto di coppia è fatto di momenti piacevoli e scontri quotidiani, pur se sovente piccolissimi. Di solito, la reazione più comune è la pretesa che sia l'altro a cambiare: se tu fossi così e così, allora io.... È sempre l'altro a doversi muovere per primo, e di conseguenza il modo di rapportarsi è costruito sullo scontro e sull'interpretazione, senza approfondire attraverso opportune verifiche. Il nostro rapporto ha spiccato il decisivo salto di qualità quando abbiamo imparato a chiederci regolarmente: hai qualche cosa da dirmi? Oppure: posso fare qualcosa per te? E ci siamo rapidamente accorti che l'offerta di coinvolgersi là dove ci sono differenze e contrasti è già l'inizio d'una qualche soluzione. In molte coppie, purtroppo, prevale il vizio di interpretarsi l'un l'altro, mentre bisognerebbe imparare a farsi dire, per potersi conoscere. Noi abbiamo impiegato parecchio tempo prima di deciderci a cambiare insieme, ma ora ci viene spontaneo, tanto da sentirci grati non tanto di ricevere amore, ma per la grande opportunità di poterlo donare: ti ringrazio di amarti, ci diciamo reciprocamente, ti ringrazio perché mi fai sperimentare in profondità un sentimento impossibile da conoscere, se non sperimentandolo. Mi sembra addirittura incredibile che sia così difficile capire quello che, una volta capito, appare semplicemente ovvio.

Nella nostra condivisione quotidiana passiamo anche lunghissimi attimi in silenzio ad ascoltare il riversarsi dell'uno nell'altro. Quanto è gustoso l'amore confermato! Il matrimonio è un animale strano che col tempo acquista forza, come il vino buono che invecchiando migliora. O forse, più che migliorare, è più corretto dire che si modifica, assumendo una bellezza e un sapore nuovo impossibile da conoscere, se non per esperienza diretta. Un po' come il parmigiano: non avrebbe senso dire che è migliore del formaggio fresco, ma è impossibile gustarne il sapore se non dopo che è trascorso tutto il tempo necessario alla stagionatura. Per chi non lo conosce l'esempio può risultare sterile. Ma chi lo conosce….

La mia dolce rottamina (come si definisce lei) ogni tanto cita un versetto del profeta Isaia che dice: si apriranno gli occhi dei ciechi e si schiuderanno le orecchie dei sordi, lo zoppo salterà come un cervo. Dice che sembra scritto per lei, e si chiede quando accadrà, ma si mantiene in attesa senza pretese né ansie. Ora che insieme stiamo percorrendo il viale del tramonto, mi rendo conto che nessuno meglio di lei mi può insegnare a morire, anche perché lo studio condiviso finisce per assumere perfino venature artistiche. Con chi altro potrei parlare della morte come di qualsiasi altra cosa, in quel clima intriso d'affetto che preserva da turbamenti psicologici? Una insegnate eccellente, insomma, e presumendo che la scuola duri ancora a lungo, non potrei far altro di meglio che continuare a frequentarla.

Talvolta ci diciamo reciprocamente: mi piacerebbe essere curato da te e morire fra le tue braccia. Ma anche: mi piacerebbe tenerti fra le mie braccia nel momento in cui si compirà la tua vita. Tutto sommato, però, saremmo più contenti di morire insieme. Ma non vogliamo mettere limiti alla provvidenza: per il momento il nostro amore continua a rifiorire e l'estasi coniugale non si placa. L'unica cosa che ci dispiace, da vecchi rottami quali siamo, è dover ridimensionare i nostri viaggi per il mondo alla scoperta del bello. Spostandoci in aereo abbiamo sempre considerato l'ipotesi di una possibile caduta, ma oggi, volando raramente, le probabilità di morire insieme diminuiscono di molto.

11 Più o meno talenti

Una mia cara amica mi ha scritto: «non credi che per imparare a morire bisognerebbe innanzitutto definire che cos'è la morte?». Chiedo scusa, ma a me sembra di no: mi pare secondario. La storia del pensiero non è riuscita a fornire risposte oggettive e soddisfacenti a simili interrogativi, oltre a dire che il cuore del nostro individuo biologico cessa di battere. Tutto il resto riguarda la fede o la filosofia, che offrono immagini o soluzioni convincenti per alcuni, ma non per altri.

Tali argomenti esulano dalle mie intenzioni, che sono quelle di imparare ad accogliere sorella morte quando deciderà di venirmi a trovare, indipendentemente dal sul suo modo di essere. Va da sé che credere, per esempio, a certe immagini positive o negative della religione, o vice versa farsi catturare dal nichilismo, può incidere moltissimo sullo stato d'animo. E tuttavia imparare o meno a morire penso riguardi tutti, qualunque cosa si pensi o immagini.

Vorrei imparare a essere accogliente comunque, indipendentemente da quanto la morte mi piaccia più o meno. So che molti pensano sia illusorio, o velleitario, o inutile, oppure una pretesa curiosa. Può darsi, ma imparare a vivere, allora? Tutti sanno che è indispensabile studiare e faticare a lungo per imparare un mestiere, e molti sono disposti a lavorare, anche moltissimo, per ottenere denaro e successo, ma ben pochi credono necessario studiare per imparare a vivere. Nessuno nasce imparato, dice un antico proverbio dialettale, preso talmente poco sul serio che poi, di fatto, ciascuno rifiuta consigli e suggerimenti, così come faceva Pinocchio col Grillo parlante (ogni riferimento a un qualsiasi grillo attuale è puramente casuale). Le conseguenze sono fin troppo evidenti: insoddisfazione, frustrazione, delusioni, scompensi psicologici, depressione, angoscia (con relativo uso di tranquillanti e psicofarmaci); oppure rivalse, prepotenze, prevaricazioni, litigi, violenze talora assurde e incomprensibili; o ancora: contrasti genitori/figli, dissapori coniugali, famiglie distrutte, amicizie infrante, conflitti, incomunicabilità, solitudine, e tante tristissime sofferenze di tutti i tipi. Anche se taluni eventi accadono per cause talora imprevedibili e ingestibili, quante insensatezze derivano invece da impreparazione e superficialità?

Proprio perché da tempo mi sono posto il problema d'imparare a vivere, peraltro senza capire fino a che punto ci sono finora riuscito, adesso vorrei imparare a morire. Due versanti dello stesso studio, mi pare, fatto sta che mi è difficile capire quale siano l miei reali interessi quando scorgo da un lato la vita quotidiana con tutte le sue attrattive e i suoi problemi (pur sempre affascinanti), e dall’altro un al di là dell'orizzonte così difficile da indagare. Osservandomi, azzarderei a dire che non mi disturba troppo l’idea di morire, e aggiungerei che tutto sommato non m'importa molto vivere ancora a lungo, salvo che per il tempo necessario a portare a termine questo mio attuale studio. Ma può darsi che dire così sia pura velleità.

Quel che è certo, direi, è il desiderio di spenderla e concluderla bene, questa mia esperienza sul pianeta Terra. Dopotutto la potenzialità che ho ricevuto in dote, e che non esito a definire divina, è l’unica che ho, e mi sentirei uno stolto a sprecarla. Per questo motivo da lungo tempo sto tentando di governare la mia vita, anziché lasciarla gestire dal caso, ma non sono così presuntuoso da pretendere di valutarne i risultati. Da qualcuno ho sentito ripetere più volte che la morte chiede all’uomo soltanto una cosa: farsi trovare vivo, ossia, con lo sguardo rivolto verso l’orizzonte. Perché illudersi di poter conservare l'esistenza senza proiettarsi oltre non è altro che un anticipo di morte (chi vorrà conservare la propria vita la perderà, dice il vangelo). Credo veramente, mi domando, che la mia vita abbia un senso al di là di ciò che tocco e vedo? Neanche volendo potrei rinunciare a interrogarmi per tentare di capire meglio, fosse anche minima la speranza di riuscirci.

Non so quanto valgo, né sono in grado di saperlo. Una volta pensavo di non capire tante cose, ma ora mi sono accorto che sono assai di più, quelle che non capisco. Se, per esempio, provo a paragonarmi con qualcuno, mi vien subito alla mente Stephen Hawking, universalmente riconosciuto come uno dei maggiori cervelloni di sempre, autore di lavori scientifici d'importanza capitale, malgrado sia completamente paralizzato anche nella parola. E allora? Forse che la sua vita è meno significativa della mia (o viceversa)? Il vangelo dice che ciascuno ha i talenti proporzionati alle proprie capacità, e mi domando che cosa significa, al di là di quel che appare a prima vista. In uno dei miei momenti sognanti ho immaginato di fare questa preghiera: mio Dio, dammi più talenti delle mie capacità. Ma poi, dopo avere  riflettuto un po' in silenzio, mi sono spaventato e ho detto: ti prego, dammene di meno. La sensazione è stata molto interessante, anzi divertente, tanto che mi ha portato ben presto a concludere: ok, d'accordo, va bene così.

Che cosa potremmo mai capire o fare, se non accogliere la nostra realtà così com'è? È una banale ovvietà dire che sono come sono: non potrei essere altro, non ci riuscirei. Posso evolvermi nei limiti delle mie potenzialità, ma non travalicarle. Non so se saprò imparare a morire così come sono, ma studiare per diventare un altro sarebbe velleitario. Altrettanto ovvio è che nel passato sono stato diverso, almeno in parte, ma oggi devo fare i conti con quello che sono. Forse domani sarò un altro, se l'esperienza vissuta mi avrà trasformato, ma in ogni caso, tuttavia, solo per certi versi, perché alcune caratteristiche sono immodificabili. Dentro di noi c'è un nocciolo duro che costituisce l'essenza, mentre poi, a contatto dell'ambiente e delle persone circostanti, veniamo rivestiti da una sovrastruttura probabilmente sempre modificabile. E tuttavia credo che l'essenza non si lasci mai annullare.

Ad affrontare la realtà in modo più o meno sereno o angosciante si può imparare. È questione di scelte. L'ultima volta che sono stato in Brasile ho visto sfrecciare un'autoambulanza con scritto sul fianco a grandi lettere: con allegria! Poco dopo, sul Rio delle Amazzoni, una grossa barca aveva come nome: preoccupazioni zero. Mi sono anche imbattuto nella Irmandade da boa morte, con foto emblematica di un gruppo di donne variopinte dall'aspetto di tante mamme accoglienti. Mi sono ricordato che per anni ho tentato di istruirmi riguardo le possibilità di accedere a un superiore stato di coscienza, ma poi ho capito che illuminazione non significa scoprire e capire chissà che cosa, ma semplicemente illuminare in maniera creativa l'esistenza, cioè quel che si vive momento per momento. Ma quante distrazioni! Non facciamo altro che camminare mangiare dormire leggere lavorare, ma ci rendiamo conto che lo stiamo facendo? Siamo presenti a noi stessi mentre affrontiamo tutte queste cose? Personalmente mi viene il sospetto, sovente, di non accorgermene neppure, di non sapere quel che sto facendo.

Le reazioni che avverto nell’intimo finiscono per farmi intuire quale sia l'atteggiamento giusto e positivo, quello che terrebbe chi ha imparato a morire. Ma sovente mi accorgo che sento ancora il bisogno di dirlo, di parlarne come a voler cercare il conforto dell'approvazione altrui. Allora capisco di essere ancora psicologicamente condizionato, e quindi immaturo. Non ho ancora imparato, e sarei proprio curioso di vedere se imparerò. Intanto il tempo scorre inesorabile senza rallentare né accelerare. La terra gira con assoluta regolarità, senza mai distrarsi. Il sole sorge ogni giorno, la luna non si scompone mai, il mare è sempre lì. Oggi è il domani di cui mi preoccupavo ieri. Un eterno presente, giorno dopo giorno.

Guardo l'orologio (il mio è di quelli vecchi passati ormai di moda): la lancetta dei secondi scorre lentamente (o velocemente?), la guardo senza distrarmi per tutto il giro completo, è passato un minuto, ho vissuto un minuto in più, mi resta da vivere un minuto in meno. Inesorabile, il tempo, ci mette sempre un minuto per ogni minuto, senza rallentare né accelerare. Fantastico!

12. Morto di sonno

Dicono che di solito invecchiando si dorme di meno, ma per me è vero il contrario. Il sonno è certamente uno dei più attivi protagonisti della mia vecchiaia: potrei dire di avere sempre sonno, una sonnolenza che si affaccia già dal mattino appena sveglio (si fa per dire), tenendomi poi compagnia per tutta la giornata. Sarà una fuga dai ricordi del passato o il preludio d'un futuro che esige lunghi allenamenti, per essere affrontato a dovere? Da anni ormai sonno, sonno, sonno, e ancora sonno. Ho interpellato luminari di vario genere, alcuni dei quali ho anche profumatamente pagato, mentre altri se ne sono occupati per amicizia, diretta o indiretta. Tutti hanno indagato, analizzato, sperimentato farmaci e terapie, tutti all'inizio ottimisti e alcuni con aria di supponenza, come a dire: adesso risolvo io. Ma tutti, alla fine, sia i percettori di laute parcelle, sia i disinteressati, hanno gettato la spugna senza capirci nulla.

Gli amici di solito pare non si accorgano di questo sonno che mi avvolge in permanenza, ma è perché faccio come se non ci fosse, ben sapendo che se gli dessi retta aspirerebbe a travolgermi. Per esempio, è normale per chiunque avere sonno la sera, dopo una giornata attiva, quando le palpebre tendono ad anticipare la decisione di chiuderle. Ma per me è normale sempre, a qualsiasi ora. "Ah morto de sonno!" è una delle espressioni romanesche più colorite, che nel mio caso si dimostra particolarmente calzante.

Al termine della giornata è normale per tutti trovare qualche riserva d'energia capace di far accantonare temporaneamente la sonnolenza fisiologica, se intervengono improvvisi motivi d’interesse tipo l'arrivo di un amico lontano o di qualche altra notizia significativa. Ebbene, potrei dire che per me si tratta di regola quotidiana: nei momenti in cui spunta un'idea o un interesse nuovo il sonno, per un po’, si fa gentilmente da parte (per mia grande fortuna mi viene concessa abitualmente questa "franchigia" quando guido l'automobile). Ma nei momenti di routine è come se fossi perennemente alla sera di una giornata intensa, quando la parola più adeguata sarebbe buonanotte. Il bello, poi, è che l'appisolamento mi segue anche nel sonno, perché sovente sto sveglio per ore, ma non sveglio del tutto: una veglia fatta di sonnolenza che non m’impedisce di sognare, e tuttavia con sufficiente coscienza che si tratta di sogni, e non di realtà. Insomma, da sveglio sono abbastanza addormentato, e spesso, da dormiente, abbastanza sveglio. E così mi sono assuefatto a condividere quotidianamente pensieri sognanti e sogni pensierosi nelle lunghe notti (e nei lunghi giorni) di dormiveglia.

Forse sognare è vivere, mi dico, e mi godo certe esperienze che da sveglio non avrei sufficiente consapevolezza per riuscire a conoscerle. Talvolta mi sembra di essere sulla soglia di qualche nuovo ingresso, ma non capisco quale. Quando il mio subconscio viene sintonizzato sull'argomento del mio attuale percorso di studio, mi capita sovente di passare in rassegna le toccanti esperienze che ho vissuto assistendo, nelle loro case, malati oncologici terminali. Ne ho accudito oltre un centinaio, e almeno una cinquantina li ho accompagnati fin sulla soglia, tenendo la loro mano fra le mie al momento dell'ultimo respiro, e partecipando così come ospite privilegiato a incontri di tutti i generi con sorella morte. Qualcuno dei protagonisti aveva imparato a dovere, come si poteva dedurre dal suo atteggiamento, mentre altri non si trattenevano dal mostrarsi desolatamente impreparati. Un bel tirocinio che mi ha segnato per sempre.

Uno dei semisogni ricorrenti è quello del Professore, uomo di grande cultura e sensibilità, che mi parlava di suicidio con una logica che aveva il senso dell'ovvietà. Ragionava come gli stoici sostenendo che dovrebbe essere lecito decidere personalmente quando chiudere il rubinetto, una volta accertato che sgorga ormai solo acqua avvelenata. Da tempo soffriva intensamente, ma in particolare temeva di abbrutirsi in uno stato drammatico per sé, diceva, ma soprattutto poco dignitoso verso gli altri. Contrariamente ai familiari che per queste sue accorate riflessioni lo rimproveravano umiliandolo, quante volte ho dovuto convenire con lui che le sue opinioni erano ragionevoli, prima di fargli capire che anche da malato terminale poteva insegnare molto sul senso della vita, lui che era stato professore di materie tecniche. E che lo stava facendo molto bene, dal momento che i suoi figli si mostravano commossi e ammirati per come sopportava con dignità quella sua tragedia.

A me, nel dormiveglia, l'idea del suicidio mi fa semplicemente sorridere, però riconosco che non sono malato e sofferente, e quindi farei presto a tranciare giudizi su quello che conosco solo in teoria. Comunque sia, i miei sogni da semiaddormentato non mi disturbano, anzi mi coinvolgono, e spero proprio che continuino a tenermi compagnia. Di giorno invece la sonnolenza si fa talvolta scoraggiante e dura da sopportare. Talvolta mi verrebbe voglia di sdraiarmi per terra dovunque mi trovi (salvo che non faccia troppo freddo). Non si vede, mi ripetono gli amici che mi trattano come se fossi perfettamente sveglio (non ho ancora capito se è meglio o peggio, ma comunque per me va bene così). Per anni ho tentato di ribellarmi, prendendo anche farmaci micidiali, talvolta con buoni effetti immediati ma anche con rischi collaterali nient'affatto piacevoli. Da qualche tempo, invece, ho scelto di convivere tranquillamente con il sopore, cercando di capirne il senso. Forse il sonno vuole insegnarmi qualcosa, mi sono detto da tempo, proponendomi di ascoltarlo giorno dopo giorno.

E posso dire che dal mio sonno sognante qualcosa ho già appreso. Ho capito che i sogni non sono visioni di fatti che scorrono nel tempo, come gli eventi quotidiani, ma veri e propri racconti (almeno nel mio caso). E me ne sono accorto perché nello scorrere degli eventi di vita quotidiana, quando ci sono conseguenze sgradevoli, avvertirei la tentazione velleitaria di pensare: se si potesse tornare indietro! Nei racconti, invece, si torna indietro ogni volta che si vuole. I miei sogni (non so se vale per tutti) si svolgono proprio in questo modo, e sovente le situazioni spiacevoli ritornano sui loro passi per riproporsi diversamente, anche più volte di seguito. E mi sono accorto che la mia partecipazione personale, anche se appisolata, può avere la sua influenza. Così, dal momento che nella vita concreta quel che accade non può più essere modificato, percepisco i miei sogni come affettuosi moniti a riflettere meglio, di fronte a scelte e decisioni, per evitare di rammaricarsi con sterili "se" a posteriori.

Riflettendo sull’esistenza in generale, mi accorgo che moltissime persone, direi quasi tutti, tendono a vivere di corsa, continuando anche quando la meta è prossima, col risultato sovente di transitare sul traguardo finale senza neppure accorgersene, quasi fosse auspicabile una morte inconscia. Ma a me piacerebbe vivere consapevolmente e con calma il compiersi della mia vita. Forse, mi dico, se prenderò sufficiente confidenza col dormiveglia riuscirò a farmi coscientemente defunto, e forse il sonno mi rivitalizzerà, per quel che sarà possibile. Sovente nei mie sogni, non importa se di notte o di giorno, rivivo momenti significativi con i miei interlocutori, e talvolta mi sembra di capire quel che poi da sveglio non ricordo più, se non confusamente. Comunque ascolto questa permanente sonnolenza che conversa con me ogni giorno, e mi sembra di capire che mi suggerisce di entrare, un passo dopo l’altro, in quel clima che potrebbe farmi percepire emozionalmente il senso del più grande di me, al di là delle elucubrazioni mentali che, pur preziose, sono sempre insufficienti.

Se il sonno, si potrebbe dire, ci fa vivere ogni sera l'esperienza di una piccola morte quotidiana, a me sembra di percepirne il senso in permanenza. Che sonno che ho! È come se tutta la riserva di sonnolenza che mi riguarda si fosse d'improvviso risvegliata per premermi addosso e sferrarmi l'attacco finale, quasi volesse contrastare la presa di coscienza che sento lì, vicina, accanto a me, eppure sempre da conquistare. L'esempio mi si ripropone regolarmente la mattina quando, ormai sveglio, accendo la radio che ho sul comodino per ascoltare la rassegna stampa. Sono sveglio, ma con delle insistenti gocce di sonnolenza. Così ascolto le notizie, ma soltanto a metà perché mi sfuggono regolarmente alcune parole chiave. Come una presa di coscienza incompleta, alla quale manca sempre qualcosa.

Non mi sento mai sveglio, nel senso che non mi sento mai cosciente sul serio. È come se, impegnandomi, riuscissi a raggiungere un certo livello, con la sensazione di ritrovarmi sull'orlo del risveglio. Poi mi sveglio e mi ritrovo sull'orlo del risveglio. E così via. Si tratta d'esperienza vissuta: chi può provare provi.

È come un orizzonte in espansione: gli vai incontro e l'orizzonte lo ritrovi più in là. Mi ricorda il già e non ancora: il domani è cominciato ieri. Ho sonno ma non praevalebunt: non so bene che cosa significhi, ma non m'importa saperlo. Confermo che non so dove vado ma ho deciso di andarci: per me è peccato tutto ciò che frena o rallenta il cammino, e me la rido dei conflitti tra me e me.

Vivo giornate intense e significative, in bilico tra sonno e consapevolezza. E se non so bene quale senso abbiano, ho però la sensazione che la presa di coscienza debba ancora giungere. Forse prestissimo. O forse mai. Buonanotte.


Tra il già e il non ancora

Mi sembra quasi di star qui seduto
nell'attesa di quanto già avvenuto.
Non so capire quello che accadrà
comunque sia, sarà quel che sarà.

13 Metafora politica

Ho visto un loden per strada che si muoveva tra la gente. Un bel cappotto, non c'è che dire, solo che quello era sdrucito, consunto, e anche un po' sporco. Non solo aveva i suoi anni, ma mostrava di essere stato piuttosto strapazzato. Di bottoni ce n'erano rimasti due, uno dei quali tutto sfilacciato, ma l'altro sembrava ancora decente in mezzo a tutto quel degrado. Lo indossava un signore vecchio e rugoso, dai i capelli radi e impomatati, con un'aria da benestante decaduto che non vuol rinunciare alla sua dignità. È inutile dire che il pensiero mi è subito andato al Presidente del Consiglio, soprannominato tra l'altro: l'uomo del loden.

Se penso all'incredibile parabola di Mario Monti mi sento stupefatto e tentato dall'ironia (forse per difesa da sensazioni più sgradevoli). Dal ruolo di salvatore della patria fino alla discesa così in basso, gradino dopo gradino, tanto da giungere a dichiarare pubblicamente, in Parlamento, che non vede l'ora di staccare la spina e abbandonare le sue responsabilità. Che impressione, quel loden sdrucito! E che tristezza! Avevamo riposto in lui la speranza che ci salvasse dalla politica, e invece è lui che ci si è perso, dopo averci fatto sperimentare una vacanza turistica terminata con il ritorno alla solita routine, ma addirittura a un gradino inferiore.

Mi domando: ma non ci bastavano i politici che abbiamo sempre avuto? Sembra quasi che sia stata creata una pausa ad hoc per consentir loro di rivitalizzarsi. Così il suo predecessore, malgrado tutte le batoste ricevute, è tornato in piena forma, mentre i soliti altri gli fanno da comprimari nel "teatrino della politica", come da loro stessi definito. Se non fosse da piangere ci sarebbe da ridere. Altro che comiche finali, come qualcuno dice: comiche sì ma non finali, permanenti. Una variante di umorismo noir, di quel tipo che per sua natura riesce a svilupparsi nelle forme più imprevedibili, e senza fine.

Quand'ero ragazzo un mio amico di qualche anno più anziano, sottile umorista, amava comporre sketch da avanspettacolo che rappresentava per lo più in teatrini familiari. Ricordo un suo personaggio che raccontava con ironia delle scene drammatiche, e concludeva ogni volta dicendo: che ridere, tutti piangevano. La battuta mi era talmente piaciuta da restarmi in testa, tanto che nel corso degli anni l'ho trovata più volte calzante, ma oggi mi appare addirittura come una profezia scritta apposta per la nostra situazione politica attuale. Che divertente, siamo tutti angosciati!

Da vent'anni il protagonista è Berlusconi, non importa se nel bene (secondo i suoi seguaci) o nel male (secondo i suoi avversari): resta sempre lui il numero uno indiscusso, punto di riferimento per tutti. Non è il suo comportamento a stupire (ciascuno ha diritto a essere se stesso) ma il modo di rapportarsi degli italiani nei suoi confronti: come mai così tanti sono disposti a perdonargli tutto? Si potrebbero capire i politici, pensando maliziosamente alla loro convenienza, ma la gente comune? Dopo aver riflettuto a lungo il motivo mi sembra evidente: siamo di fronte al più grande ipnotizzatore di tutti i tempi, tale da fare impallidire maghi di fama universale come Cagliostro. È riuscito a ipnotizzare tutti, quelli che stanno dalla parte sua e dicono, giustamente: meno male che Silvio c'è, perché infatti appena si è tirato temporaneamente in disparte i suoi seguaci si sono subito ammosciati e dispersi (salvo poi ricompattarsi quando è rispuntato all'orizzonte). Ma ha ipnotizzato profondamente anche i suoi avversari che sono incapaci di proporsi se non in contrapposizione a lui, riconoscendolo così come punto di riferimento per tutti. Anche Monti, che pure inizialmente si vantava di essere superpartes, si è lasciato ipnotizzare, c'è cascato, è sceso in competizione, solo che non avendo la stessa abilità ha finito per mostrarsi, sotto questo profilo, piuttosto "imbranato". E così, da persona di destra qual è, ha creduto di potersi contrapporre al grande illusionista, collega di schieramento, assumendo verso di lui atteggiamenti conflittuali, col solo risultato di farsi travolgere e perdere credibilità. L'ipnosi berlusconiana ha contaminato tutti, destra e sinistra, cattolici e laici, amici e avversari. I refrattari sono una piccolissima minoranza, che in democrazia finisce per contare poco o nulla. Gli ipnotizzati si dividono tra coloro che lo esaltano difendendolo visceralmente, e quelli che farebbero qualsiasi cosa per toglierselo dai piedi. Per quanto mi riguarda, vorrei dirmi libero da entrambi gli schieramenti, ma non posso escludere di essere anch'io sotto ipnosi.

Fra tutti, siamo stati capaci di farlo risuscitare quando pareva ormai definitivamente consegnato alla pensione, offrendogli la possibilità di fare una campagna elettorale spregiudicata e brillante con promesse impossibili da mantenere, ma che importa? Scopo dell'imbonitore non è mica quello di essere coerente, ma di catturare le menti e conquistare consenso. Distribuendo un'ipnosi generalizzata che attira tutta l'attenzione su di lui, la sua genialità si è scatenata al punto da consentirgli di sostenere la tesi più ragionevole, che in una crisi come l'attuale è ovviamente quella del governo di larghe intese, come si farebbe in qualsiasi paese civile. E così, lasciando agli altri l'onere del rifiuto pregiudiziale nel affermare (pur giustamente) che lui non è credibile perché in passato non ha mantenuto gl'impegni presi, e poi perché tiene comportamenti disdicevoli, ha reso possibile ai suoi supporters sostenere, non senza buoni argomenti, che è lui il più ragionevole di tutti. Si discute accanitamente se sia innocente o colpevole, se è un perseguitato o se è lui a cercarsele, ma in un regime di dormienti sono tutte cose assolutamente insignificanti. Perfino Grillo c'è cascato: aveva nelle sue mani l'occasione di estromettere definitivamente dal quadro politico lo psiconano (come lo definisce lui), e se l'è lasciata scappare.

Bisogna però aggiungere che se è vero che il Cavaliere ci ha fregati tutti, amici e avversari, allora non è vero che i politici siano tutti uguali: alcuni sono molto più bravi di altri (nello spararle grosse). E la stessa cosa vale per gli ascoltatori, o spettatori, o sudditi (o chiamateli come vi pare): anch'essi non sono tutti uguali, perché c'è chi è molto più bravo di altri (nel bersele). D'altra parte, una qualche forma di meritocrazia va ben riconosciuta, e se tanta gente continua a votarlo non resta che prenderne atto: la democrazia merita rispetto anche in un regime ipnotico.

Se qualcuno mi domandasse che cosa c'entra la politica con l'imparare a morire, gli risponderei che c'entra eccome, perché tutte queste vicende possono essere facilmente lette come metafora della vita. C'è sempre un illusionista in agguato, palese o mascherato, pronto a catturarci la mente e il cuore propinandoci attese, speranze, delusioni, rabbie, frustrazioni, con accompagnamento condito d'ironia, se non drammatico sarcasmo. Se, come si usa dire, la vita è a un tempo gioia e sofferenza, mi accorgo che studiando per imparare a morire ci si diverte un sacco.

Ad esempio la recente grandguignolesca ultima campagna elettorale è iniziata molto prima di cominciare, è cresciuta rigogliosa ed effervescente, ha percorso la fase terminale, e poi? È subito ricominciata senza concedersi neppure un attimo di respiro. Terminerà mai, in modo da poterci ritrovare tutti nell'al di là (della campagna elettorale)? E i partecipanti (d'ogni tipo) saranno preparati al termine? Avranno imparato a morire? Oppure varcheranno la soglia nel caos più completo, senza saper dare compimento al loro percorso? Di fronte a questi interrogativi spunta subito qualcuno interessato a illudersi: piano piano, un passo dopo l'altro…. Ma di passi, nell'attuale ristagno, ne servirebbero due, tre, cento per volta. O forse mille? O chissà quanti?

Mandati esplorativi, comitati di lavoro, sondaggi: attese, attese: c'è sempre da aspettare qualcosa. Ora è stato inventato il congelamento attivo affidandolo a dieci saggi, ma ce ne sono davvero così tanti in Italia? In ogni caso, tutto fermo nell'attesa di un governo che non si vede neppure al di là dell'orizzonte. Bisogna aver pazienza, tanta pazienza, sperando che poi… che poi… Ma il poi non arriva mai. Proprio come nelle vicende di vita, a me capita di pensarci come se dovessi gestire il tutto in prima persona: Grillo dovrebbe fare, Bersani dovrebbe fare, Berlusconi dovrebbe fare….. Come se la soluzione dipendesse da me e dalle mie scelte. Adesso telefono a Napolitano e glie lo dico, tenderei a pensare tra me e me. Ma poi sento una voce suggerirmi: ma che ti frega! dati i lunghissimi tempi di realizzazione le ripercussioni pratiche riguarderanno altri. Però, pensando che sarà così mi sento ancor più a disagio.

Fra qualche tempo che cosa scriveranno gli storici dei grovigli odierni, se non parole che sotto sotto significheranno: che ridere, tutti piangevano! Ai tempi del Bagaglino Pippo Franco cantava: mi dispiace di morire ma son contento, son contento di morire ma mi dispiace, e di fronte a certi intrecci paradossali mi andrebbe di cantarla anch'io. In questo contesto di minoranze irriducibili, gelosa ciascuna del proprio veto, la sensazione è di scivolare sempre più verso il peggio, mentre le speranze si riducono a semplici auspici. Talvolta sento lo scoraggiamento per le vicende politiche intrecciarsi con i timori per la mia vita personale. Io non posso fare niente, lo so bene, però consolarmi pensando che il disastro totale non lo vedrò perché non ci sarò più, mi sembra equivalga a morire rassegnato, senza voler dare alla mia vita un senso compiuto.

La speranza è più forte di me, e non la posso perdere. Posso solo aggiungere un'esortazione senza alcuna pretesa di sapere se sarà ascoltata. Per favore, smettiamola di ridere per fatti tragici e piangere per spiritosaggini da strapazzo: imparare a morire è anche liberarsi dai bizantinismi, per badare a quello che conta. Possibilmente senza pregiudizi.


14. Affortunato!

L'altra sera ho visto alla televisione un documentario sui lager nazisti. Negli anni trascorsi ne avevo già visti molti, ma quello era particolare perché parlava di bambini nati in quei luoghi destinati alla morte. Quel che più mi ha colpito è stata la testimonianza di una ex internata che parlava del momento in cui i guardiani carcerieri erano scappati, perché stavano arrivando gli americani, e in particolare raccontava di abitanti dei dintorni che, giunti sul posto, esortavano i poveri prigionieri stremati a resistere: «non morite, non morite adesso che la guerra è finita!». Frase che continua a risuonare allucinante anche oggi, dopo tanto tempo.

Difficile immaginare fino a che punto avessero imparato a morire quei prigionieri, così a lungo costretti a vivere sulla soglia dell'oltre, quella stessa soglia che vedevano varcare tragicamente ogni giorno da altri loro compagni di sventura. C'è comunque da credere che nel momento della liberazione la voglia di continuare a vivere abbia agito come improvvisa riserva di energia, perfino in coloro che erano ben oltre la normale sopportazione. Forse proprio lì, sull'orlo del trapasso, forse sazia dalle lunghe scorpacciate fatte in quei luoghi posti al suo servizio, la morte avrà voluto assumere un atteggiamento benevolo lasciando che molti, che parevano già da lei ghermiti, riprendessero miracolosamente la via della vita.

Quella persona intervistata aveva la mia stessa età: al tempo del suo internamento nel lager quasi 14 anni. Come sono fortunato, mi sono detto: c'ero anch'io, a quei tempi, ma non sono ebreo e mi trovavo sfollato in un luogo del Piemonte, con qualche piccolo disagio che alla luce di simili tragedie mi vergogno perfino di chiamare disagio. In seguito, negli anni scorsi, sono stato diverse volte ad Auschwitz: un gelo indescrivibile, non ci si può abituare. Come mai proprio a me è capitata la sfacciata fortuna di esserne rimasto fuori, e anche la straordinaria opportunità di percepire poi, sul posto, tutto lo strazio di tali crudeltà?

Personalmente ho avuto una vita felice, in una nicchia del mondo però: un mondo colmo di tragedie. Non solo lager, gulag o altri luoghi organizzati volutamente come contenitori di rifiuti umani, ma anche eventi e luoghi tra i più disparati, e tuttavia non meno adatti a suscitare sofferenze terribili. Dall'anno della mia nascita in poi sono accaduti innumerevoli fatti crudelissimi, con tragedie senza pari, e ogni volta io c'ero e non c'ero. Quand'ero piccolo, nella guerra civile in Spagna ci sono stati spietati massacri di bambini, ma io ero in Italia. Poi, durante la seconda guerra mondiale, i bombardamenti a tappeto, chiusi nella cantina del palazzo (ribattezzata pomposamente e velleitariamente rifugio) che tremava violentemente a ogni scoppio. Ma le bombe sono sempre cadute un po' più in là.

Per fare altri esempi, quale angoscia a pensare i soldati nel gelo della Russia, quelle centomila gavette di ghiaccio che letteratura e cinema non hanno mancato d'illustrare a dovere! Ma io ero un ragazzo (e per di più mio fratello era troppo giovane e mio papà troppo vecchio per essere mandati al fronte). Per non parlare del freddo, oltre ad altre pesanti vessazioni, cui sono stati costretti i prigionieri in Siberia, mentre io me ne stavo ben comodo nella campagna piemontese, dove un pezzo di legna per la stufa non mancava mai, e la neve si trasformava sovente, per noi, in un gran divertimento. Perfino quando sono esplose le bombe atomiche su Hiroscima e Nagasaki io c'ero, ma distante migliaia di chilometri, qui nella nostra Italia, che si stava ancora leccando le ferite ma era già proiettata verso brillanti ricostruzioni.

E poi, in seguito, gli avvelenati di Bophal, Cernobyl, o anche Seveso: io c'ero sul nostro povero pianeta contaminato, ma potevo occuparmi d'altro perché tutto è sempre accaduto a distanza rassicurante. Che fortuna! Da oltre 60 anni nella nostra Europa non ci sono più guerre, ma altrove? Durante lo spaventoso conflitto del Vietnam c'ero, ma non ero un vietnamita, di quelli costretti a subire sofferenze inaudite; e non ero neppure un soldato americano, di quelli costretti a distribuire crudeltà di tutti i tipi, oltre che a subirne anch'essi. E che dire della "rieducazione forzata" nella Cambogia di Pol Pot? O delle feroci vendette in Rwanda? C'ero, ma sempre qui, in Italia, nella "pacifica" Europa. E a Sabra e Shatila? E in Afganistan, in Iraq, a Gaza? Lontano, lontano. Il massacro di Srebrenica è avvenuto un po' più vicino, ma comunque a distanza di sicurezza, e io mi trovavo sempre qui in Italia, immerso nel benessere, a ragionare e disputare su questioni morali e culturali, a lamentarmi di problemi che i perseguitati, gli affamati, i poveri della terra (beati loro) non sanno neppure immaginare. E ancor meno comprendere. La logica e la morale di chi ha la pancia piena è ben diversa da quella delle pance vuote. In tutti i sensi.

Ho avuto il privilegio di vivere in un'oasi privilegiata, dove in linea di massima anche i poveri sono ricchi, soprattutto se comparati a ben altre povertà. Sono sfacciatamente fortunato, anzi mi verrebbe da dire "affortunato", alla romana, perché mi sembra che il termine dialettale renda ancor meglio l'idea (forse i puristi storceranno il naso). So bene che ogni giorno innumerevoli persone muoiono di fame o di freddo anche nel nostro civile occidente, ma talvolta, improvvisamente, quello che già so lo apprendo nuovamente in qualche forma dirompente. Recentemente ho letto sul giornale la notizia di un poveraccio morto di freddo a Milano, la civilissima Milano. Ma come si fa a morire di freddo? Com'è possibile? Sarà che da qualche tempo, ora che sono vecchio, mi sento infreddolito appena la temperatura scende di qualche grado, e poi fatico moltissimo a riprendere calore. Ma se io soffro così per un freddo che si potrebbe definire tiepido, che significherà vivere sulla propria pelle l'esperienza di stare al gelo per ore e ore, fino a che il fisico non risponde più alle sue funzioni? Quando mi soffermo a pensarci sento la disperazione salire, salire, salire: dove si fermerà?

Mi domando quanto sono vigliacco e ipocrita a pormi problemi esistenziali e morali standomene in una casa ben protetta, al caldo, con il frigorifero pieno e i rubinetti che lasciano sgorgare acqua calda. Mi viene il sospetto di essere uno sporco egoista: come posso imparare a morire se ho il cuore appesantito da tanti privilegi, che percepisco e vivo come possessi, quasi mi spettassero di diritto? E non solo per problemi di freddo. Qualche giorno fa, per esempio, mi è capitata tra le mani una vecchia rivista dove, tra l'altro, c'era un articolo sui senza terra brasiliani, seguito poi da un servizio che spiegava come riconoscere la carne migliore. C’è posto per tutti nel nostro mondo, per chi cerca disperatamente di ricuperare qualcosa da mangiare nei bidoni della spazzatura, e per chi vuole selezionare con cura il cibo più raffinato e costoso. Sarà forse per la par condicio?

Ricordo di aver sentito dire da qualche saggio bontempone che, per quante differenze vi siano tra uomo e uomo, tutti siedono sul proprio culo. Un'esortazione all’umiltà, senza tuttavia trascurare che perfino in quella zona del corpo umano, considerata abitualmente simbolo della fortuna, si annidano dei privilegi più o meno simpatici o vergognosi, a seconda del culo di riferimento. Obesità e anoressia sono di casa nella nostra civile società occidentale, dove distruggere i surplus alimentari è la regola. Ci siamo tutti dentro questa realtà, e non è quindi il caso di fare del moralismo. Forse è inevitabile che il inondo sia fatto cosi, forse non possiamo farci nulla, forse la speranza è semplicemente utopia. Ma se abbiamo devastato la terra producendo danni irreparabili, tipo inquinamenti, effetto serra o buchi nell’ozono, e se abbiamo creato una società d'ineguali calpestando i diritti dei più poveri e sfortunati, un minimo di buon gusto ci chiede di essere almeno ben coscienti che la partecipazione a tali sofferenze è per noi filtrata e stemperata dalla nostra fortunatissima posizione di privilegio. Forse, per imparare a morire, dovrei ripetermi più spesso: che culo che ho!

E poi c'è una mia fortuna particolare, quella di poter dire e scrivere ciò che credo e penso riguardo la fede, cosa per me vitale e irrinunciabile. E di aver sempre trovato editori di primaria importanza disposti a pubblicare i miei libri. Ma è solo perché ho la straordinaria fortuna di vivere nel XX/XXI secolo, mentre che cosa mi sarebbe successo qualche secolo fa? Rabbrividisco solo a pensare a certi miei predecessori umiliati, imprigionati, torturati, e perfino arsi vivi, talvolta per molto meno!

A me tocca, al massimo, di dover fare i conti con malanni che si potrebbero definire normali. Qualche giorno fa, improvvisamente, ho avvertito dapprima un fastidio e poi un dolore, sopportabile ma insistente, all'inguine destro. Mi sono ispezionato e ho trovato un gonfiore, come se fosse una ghiandola infiammata, ma la sera, sdraiato sul letto, non c'era più. Il giorno dopo di nuovo, con un va e vieni durato alcuni giorni, finché mi sono deciso a consultare un medico: una banale ernia, spuntata senza spiegazioni. Non è un gran fastidio: il dolore è moderato sia in piedi che seduto. Solo a letto rientra tutto: un bell'invito alla pigrizia! Particolare curioso, poi, in automobile mi sono accorto che le curve non sono tutte uguali: quelle a sinistra mi accentuano il dolore, mentre quelle a destra lo attenuano. Mi hanno raccomandato di stare attento agli sforzi e ai colpi di tosse, per non rischiare che diventi strozzata, e inoltre mi sono accorto che per contenere il dolore cammino come un vecchio (forse l'ernia è spuntata proprio per ricordarmi che lo sono). Dovrò operarmi, ma per mia buona sorte vivo in un paese dove gli ospedali funzionano abbastanza bene, checché se ne dica.

Come sono affortunato, come siamo affortunati: dovrebbe essere normale per gente come noi percepirlo con gratitudine. Eppure sento così tante lamentele attorno a me! Talvolta mi sembra ci sia la tendenza a mascherare i privilegi per potersi concentrare meglio su quello che non va, per poter coltivare meglio "il lamento". Personalmente direi di avere imparato abbastanza a non lamentarmi, salvo quando sono distratto, cosa che capita abbastanza facilmente. Ma se proprio voglio imparare a morire, mi dico, allora devo coltivare assai più a fondo la coscienza di quanto sono affortunato. Non è facile: c'è il rischio di sentirsi in colpa.


15. La sinfonia degli addii

Molti anni fa, quand'ero ancora bambino, ricordo che nelle storie a fumetti di Topolino c'era uno strano personaggio, il Signor Timoteo, che per difendersi dalle aggressioni indossava perennemente i guantoni da box. I suoi guai cominciavano fin dal mattino, perché sfiderei chiunque ad allacciarsi i bottoni della camicia con i guantoni! A me, l'altra mattina, è capitato di ritrovarmi con forti reumatismi alle mani, e allora mi sono immedesimato nel Signor Timoteo.

Mi accorgo sempre più che ogni piccola esperienza mi insegna qualcosa, anche negli eventi che potrebbero sembrare insignificanti. Ora ho l'ernia che mi crea qualche problema nuovo, ponendo temporaneamente gli altri in secondo piano: un problema alla volta, insomma. Dato che avrei deciso di darle retta, ieri mi sono sentito proprio un vecchio: ero al supermercato e un pacchetto mi è caduto a terra, ma l'ernia mi stava disturbando consigliandomi prudenza nei movimenti. Così ho fatto alcuni tentativi di raggiungere il pavimento senza piegarmi troppo, ma senza successo. Capivo che avrei dovuto chinarmi di più, ma il medico mi ha raccomandato di non fare assolutamente sforzi di alcun tipo. Così ho messo una gamba indietro, mi sono piegato sull'altra, e con una certa fatica sono riuscito ad afferrare il pacchetto. Un successo, se non ché proprio in quel momento di scarso controllo generale mi è uscita un po' di saliva dalla bocca, che per mia fortuna (e di tutti) è caduta su quel che avevo in mano. Ci manca solo che mi perda le bave, mi sono detto, e ho immaginato che qualcuno, vedendomi, abbia pensato: guarda quel vecchio! Così ho subito ringraziato l'ernia, anzi la signora ernia, per l'esperienza che mi ha costretto a fare.

Questo ieri, mentre domani comincerò la preospedsalizzazione per farla asportare, e poi, salvo complicazioni (con questi medici non si sa mai) fra una decina di giorni ritornerò come prima, quando il buon passo non mi mancava. Ma intanto l'attesa dell'evento mi crea come un blocco delle attività, come se tutto fosse rimandato a operazione compiuta. Un po' come avviene in politica, dove tutto resta immobile in attesa dell'elezione del presidente. Così quel che già non mi andava di fare prima, ora mi va ancor meno: ho cumuli di cose da mettere in ordine ma mi guardo bene di farlo. Potrei dire che sto aspettando Godot, pardon, l'operazione. Solo che le liste d'attesa hanno sempre qualche punto interrogativo. Dopo metterò in ordine, ripeto, ma poi siamo sicuri che Godot risolve? Comunque sia, sono contento d'aver fatto un'esperienza transitoria da vecchio, e ne farò tesoro. Non saprei se è segno che sto imparando qualcosa, ma talvolta percepisco l'avvicinarsi della fine, o almeno ne ho l'impressione, e in certi momenti provo uno stato d'animo particolare, come se ormai, per me, fosse questione di giorni o poco più. Ma con allegria, quasi si stesse avvicinando la data di partenza della nave da crociera per visitare paradisiache isole tropicali.

Nel dire questione di giorni o poco più ammetto di esagerare: sarebbe più calzante settimane o mesi, o anche anni, ma con quella lenta velocità costante che li rende un'inesorabile presente prossimo. L'ernia ha impresso un'accelerazione ai miei studi, alla mia vita, perciò, direi, mi sto muovendo con più calma. Tutto si è fermato, come cristallizzato in un grande disordine, ma in più mi domando: è proprio necessario riordinare la propria vita? E come esempio mi viene in mente che ci sono due tipi di famiglie: quelle nelle cui case il lavello della cucina è sempre pieno di piatti da lavare, e quelle dove è sempre vuoto con tutto già lavato posto ordinatamente nello scolapiatti. In casa nostra è sempre stato vuoto, non soltanto perché con le manie della mia sposa sarebbe stato impossibile fare altrimenti, ma anche perché a me è sempre piaciuto un certo ordine (moderato, non esageriamo). Tra i due tipi di famiglie la mentalità è molto diversa: lavare i piatti appena finito di mangiare per poi trovarsi il lavoro fatto, oppure accantonare il problema per faticare meno subito, ma poi trovarsi a doverlo fare all'inizio del successivo round: questo il dilemma.

Attualmente il nostro lavello continua a essere vuoto con pentole e piatti puliti, perché in casa mia si può scherzare su tutto ma non su queste cose. Però per il resto tendo a scegliere di faticare meno subito, cosa che è assolutamente contraria alla mia mentalità standard. E inoltre, quando mi salta in mente di mettermi a riordinare qualcosa, potrei dire di sentirmi stanco ancor prima di cominciare. Una stanchezza mentale, ed è proprio questo che mi condiziona: il fatto che non mi va d'impegnare la mente. Mi stanco dell'inutile, ma non mi va nemmeno di riflettere su che cosa sia utile o inutile. Contrariamente alle mie passate abitudini, sono diventato lentissimo nello scrivere, mentre mi torna alla mente sempre più spesso la Sinfonia degli Addii, dove, nel gradevole inconsueto movimento finale, per far capire metaforicamente al suo mecenate che tutto prima o poi finisce, Haydn ha concluso le parti dei vari strumenti con andamento a scalare, invitando i rispettivi suonatori a spegnere via via la candela sul proprio leggio e andarsene. E così oboi, corni, fagotti, contrabbassi, violoncelli e alcuni violini escono l'uno dopo l'altro di scena, finché restano due violini e una viola. A questo punto se ne va anche il direttore d'orchestra, seguito poi dalla viola e uno dei due violini che lasciano all'unico rimasto l'onere di trasformare l'ultima nota in ultimo respiro.

Come si congederà da me, mi domando, la mia sinfonia personale, quella dei miei modi di essere? Interessi, aspirazioni, fallimenti, successi, frustrazioni, euforie, depressioni, gioie, indignazioni, ogni loro candela è tremolante, ma non capisco se sono ancora tutte lì, o si stanno spegnendo una a una. Né se saranno loro ad autogestirsi, o dovrò decidere personalmente per ciascuna, come fossi un dittatore al vertice della piramide. Doversi distaccare dai possessi mi è chiaro, ma non ho ancora capito se devo rammaricarmi perché molti oggetti a me cari finiranno probabilmente nella spazzatura, oppure imparare a dire: chi se ne frega! Talvolta mi sembra che sia mio dovere fare uno spoglio ed eliminare il superfluo e il secondario, ma poi, mi dico, perché mai? Il falò delle vanità terminerà sempre in un mucchietto di cenere, chiunque sia ad accenderlo.

Qualche tempo fa, per esempio, nell'ospedale dove si trovava ricoverato mio figlio aveva come compagno di stanza un coetaneo mio con il morbo di Parkinson, ma lucidissimo e brillante nella conversazione. Assieme a lui abbiamo ricordato diversi aspetti del tempo di guerra, e parlando di aviazione mi ero ricordato di avere in casa un antico album sulle caratteristiche degli aerei da guerra americani e britannici. L'ho cercato scovandolo non senza fatica in un cassetto, e poi, sfogliandolo insieme, abbiamo identificato i famosissimi B17 detti fortezze volanti, e anche gli spitfire, gli hurricane, i bifusilieri looked. È stato un momento di gioia per entrambi.

Rimasto per decenni nascosto, quell'album non è una pubblicazione qualsiasi ma un documento ufficiale targato: Stato Maggiore R. Aeronautica – Superaereo (come si chiamava allora) con tanto di scritta in copertina: "da non divulgare". Contiene le fotografie, i dati e le misure di tutti i velivoli da guerra degli alleati di allora. Ricordo che alla fine del 1943, insieme a mio fratello e altri ragazzi, lo abbiamo sottratto da una stanza ai margini di un ex comando italiano requisito dai tedeschi, nella quale eravamo penetrati infrangendo i divieti. Allora, per il gusto di sgraffignare qualcosa, non badavamo a rischi: roba da farsi fucilare sul posto.

Un documento di un certo interesse oggettivo, quindi, ma ancor più per me, soggettivamente, carico com'è di ricordi che oggi, a distanza di quasi 70 anni, ho sentito riesplodere con gagliarda esuberanza. Dove andrà a finire, quell'album, quando non ci sarò più a custodirlo? Qualcuno lo guarderà con interesse, oppure finirà in qualche cassonetto per la raccolta carta insieme a molti, molti, molti suoi compagni della mia biblioteca? L'ipotesi di mettere in ordine nelle mie cose riaffiora con cadenza regolare, e con la stessa regolarità svanisce. Quante oggetti ho conservato! Probabilmente accumulare e immagazzinare dipendono dal pensiero astratto, tipicamente umano, che rende insaziabili. Gli animali si fermano quando sono sazi, ma noi non siamo mai sazi. Non mi decido a mettere in ordine, a vuotare cassetti e armadi, a distribuire a chi vuole tutti quei surplus che ho, che non userò mai più, e che in gran parte neppure ricordo di avere. Mi fa comodo dare ascolto a una voce dentro di me che mi suggerisce di scaricare su qualcun altro questo onere. Ma qualcuno chi? Quante cose anche preziose (secondo le valutazioni comuni) ho conservato! Ma ho l'impressione non interessino proprio a nessuno. Posso permettermi di lasciarle tutte mischiate nel mucchio, condannando altri a un lungo e noiosissimo spoglio, oppure a buttar tutto in maniera indifferenziata? Perché non lo faccio io? Voglio forse lasciare a qualcun altro la chiusura della mia vita? Ma d'altra parte, però, che senso ha pretendere di lasciare le cose ben sistemate?

Così se aspetto di mettere tutto in ordine sto fresco, mi dico. Altro esempio recente è che non trovo più dei libri: erano le ultime copie che avevo del mio lavoro sull'assistenza ai malati. Mi dispiace perché è un volume esaurito, e di copie non ce ne sono più neppure dall'editore. Le ho cercate con insistenza dappertutto, ma non le trovo più: non è la prima volta che mi capitano fatti simili, anzi direi che è frequente non trovare più qualcosa, che poi magari, all'improvviso, rispunta fuori come se niente fosse. Credo sia un tipo di esperienza condivisa da tutti.

Forse, mi dico, anche la morte si sta riparando in qualche anfratto per saltare poi fuori all'improvviso quando meno me lo aspetto. Un antico proverbio dice che la casa nasconde ma non ruba. Si potrebbe dire che la morte si nasconde ma non sparisce? I libri potrei anche non trovarli più, ma la morte saprà trovarmi comunque. Per questo voglio imparare ad attenderla secondo le sue decisioni, non le mie.


16. Se mi guardo allo specchio

Forse per imparare qualcosa, mi dico, dovrei riuscire a essere più coerente, e quando mi accorgo di esserlo poco dovrei provare a comportarmi come se lo fossi. Guardando dentro di me mi accorgo che i modelli non mi mancano. Per esempio, che la pazienza sia fondamentale e opportuna è per me convinzione assoluta (in teoria). Ma poi, nella pratica, l'impazienza continua a farla da padrona. Il fatto è che la mente è capace di analizzare e capire molte cose, ma lo stato d'animo fatica a seguirla. Comunque sia, mi dico, riuscire a comportarmi come se fossi paziente non sarebbe mica male! Per fare un altro esempio, ricordo che già da molto tempo avevo capito che la suscettibilità è la cosa più stupida del mondo, perché turba l'animo, impedisce di rispondere con calma, spinge a reazioni poco controllate, crea sensazioni sgradevoli. Ma ciò non m'ha impedito, sovente, di lasciarmi turbare da frasi o comportamenti altrui che a freddo mi lascerebbero indifferente. Imparare a non offendersi è un percorso lento e faticoso sul quale mi sento di aver fatto grandi passi, e tuttavia mi capita di cascarci tuttora, qualche volta.

Ricordo di aver provato grande piacere nel leggere Seneca, là dove dice che il saggio non può subire né ingiuria né offesa, perché è consapevole che insulti e scortesie o derivano da qualche equivoco, oppure da qualche individuo stupido e spregevole che non merita attenzione. Altra cosa è quando ricevo insinuazioni che potrebbero essere giustificate, nel qual caso anziché offendermi dovrei ringraziare per lo spunto di riflessione che mi viene offerto. Per chiarire meglio, se mi accusano di essere un criminale non mi offendo, perché so che non è vero, mentre se mi accusano di essere un egoista tendo a offendermi, perché probabilmente è vero. E tuttavia se ho la seria intenzione di capire me stesso, allora dovrei guardarmi bene dal prendermela per approfittare invece della buona occasione di esaminarmi, ed eventualmente correggermi. Orgoglio e suscettibilità sono pessimi consiglieri, come lo erano il Gatto e la Volpe per Pinocchio. Ma se capirlo razionalmente può essere abbastanza facile, imparare a non dar retta a subdoli consigli di comodo è un compito assai più arduo.

Esiste però una mia caratteristica che potrei prendere a modello, ed è il mangiare, che apprezzo assai sotto tanti aspetti senza tuttavia sentirmene schiavo, in nessun senso. Direi che mi piace tutto, sebbene con intensità diverse, tanto è vero che sovente mangio proprio di gusto, ma senza alcuna dipendenza. Apprezzo i manicaretti più raffinati, ma anche un panino con qualsiasi cosa, o anche pane solo, tanto più se sfornato di fresco. Mangio volentieri seduto a tavola con ogni comodità, ma anche in piedi, un po' per volta, facendo magari contemporaneamente altre cose. Mia mamma, che viveva il pasto come un rito, mi diceva: ma così non ti fa nemmeno piacere! Io le rispondevo con qualche battuta e finivamo per ridere insieme. Mi piace variare i cibi e assaggiarne di nuovi, ma nella vita mi è capitato (per circostanze che sarebbe inutile spiegare) di mangiare (quasi) tutti i giorni, per circa sette anni, spaghetti all'olio. E tuttavia senza mai stufarmene. Ho partecipato a pranzi pantagruelici che duravano tutto il giorno, ma per anni, in passato, mi sono esercitato settimanalmente in un digiuno anche per giornate intere senza né cibo né acqua, e senza reali difficoltà. Se da un lato trovo dei difetti nella moda del fast-food, non sono però un fanatico dello slow-food. A tavola non s'invecchia, dice il proverbio, ma per me non vale: se sto troppo seduto a tavola mi stanco tanto, tantissimo, perché mangio per vivere, e non vivo per mangiare. Per riassumere, mangiare mi piace un bel po' ma non ne sono condizionato, tanto che sovente mi dico: se sapessi tenere lo stesso atteggiamento riguardo gli altri aspetti della mia vita, probabilmente avrei già imparato a morire. E invece, se anche potrei definirmi perfetto nel mangiare (si fa per dire), per tutto il resto è assai lunga la strada che devo ancora percorrere.

Ampliando il senso, credo importantissimo sapersi godere le gioie terrene, cosa che ho sempre cercato di mettere in pratica. So che non è possibile a tutti, perché taluni hanno la sfortuna d'inciampare in contrattempi e sofferenze insuperabili, e quando penso a loro il turbamento mi assale. Tuttavia conosco anche altri che avrebbero le carte in regola per essere felici e godersi la vita, ma che pare invece si divertano a crearsi ostacoli e complicazioni, finendo per promuovere attorno a sé un ambiente infernale nient'affatto obbligatorio. Del resto, il fatto che le gioie della vita mi piacciono assai lo considero una garanzia dal punto di vista spirituale, perché se non le apprezzassi dovrei temere che la mia fede non sia altro che fuga dalla realtà. Invece godersi l'esistenza e sentirsi contemporaneamente attratti verso l'oltre sottolinea la proiezione verso valori più grandi. Per questo ho sempre cercato di coltivare il bello e il buono, per non perdermi l'occasione di una vita piena. Credo che, nel rapporto con i beni terreni, bisogna stare attenti a non confondere distacco con disprezzo. Chi ha raggiunto un pizzico di saggezza s'impegna per ottenere il meglio, ma contemporaneamente sa essere sempre contento di quello che ha: un invito a godersi pienamente quello che c'è, finché c'è. Ma se poi non c'è, non importa: sarebbe sterile rammaricarsene come se si trattasse di un diritto.

Un discorso a parte meritano le preoccupazioni per il futuro, che per la verità, al giorno d'oggi, si presenta piuttosto inquietante, sia per la salute ormai precaria del pianeta, sia per la rissosità umana che si dimostra sempre più inquietante. Certe volte mi spunterebbe la voglia di dire: chi se ne frega, io non ci sarò più, sono cose che riguarderanno qualcun altro. Ma poi mi guardo allo specchio e mi strizzo l'occhio con un sorriso, accompagnato però da una grande tristezza. So bene che riuscirei ad accomiatarmi meglio da questo mondo se lo vedessi avviato verso una società più giusta, un ambiente più rispettato, uno sviluppo equilibrato. Tutto il contrario, insomma, di quello che appare oggi, e che temo permarrà anche al momento del mio addio (salvo che non diventi ancor peggio). Una sensazione che non mi aiuta a imparare.

Lo specchio, quando la mattina mi faccio la barba, mi rammenta sempre di dover fare i conti con me stesso. Come potrei imparare se non fossi cosciente delle mie prerogative? Chi mi potrebbe insegnare qualcosa, se non mi ponessi attentamente in atteggiamento di ascolto? Ai tempi fiorenti della Comunità del Mattino, quando la ricerca promuoveva sprazzi d'inventiva feconda, avevamo coniato la parola maepolo (sintesi tra maestro e discepolo). Mi sembra renda bene il senso, perché credo che ciascuno, per essere creativo, debba essere contemporaneamente maestro e discepolo di se stesso. Del resto la parola guru, che in occidente viene abitualmente tradotta con "maestro", in realtà significa altro. Etimologicamente "gu" significa "oscurità" e "ru" significa "svanire". Via l'oscurità, quindi: su tale versante noi, nella nostra storia occidentale, abbiamo avuto Socrate che diceva di non poter insegnare nulla, ma semplicemente aiutare ciascuno a far emergere quello che portava già dentro di sé.

La parola maestro viene dal latino magis che significa più. Un termine giustificato nelle materie scientifiche, tecniche, umanistiche, o per meglio dire, in tutto quello che è fatto di nozioni. Ma sul senso della vita chi può essere più di altri? Chi può saperne più di altri? Ciascuno ha le sue caratteristiche commisurate ai suoi talenti, e nessuno, se non se stesso, è in grado di penetrarne il senso. Il maestro ne sa più dell'allievo e gli trasmette quello che sa. Il guru invece non ha bisogno di saperne di più, potrebbe anche essere un ignorante, dal punto di vista nozionistico. L'importante è che sappia disperdere le tenebre e aiutare l'illuminazione a mostrarsi. Che non è un di più: è semplicemente un rendere visibile quel che c'è già, anche se sovente nascosto sotto le cortine fumogene dei luoghi comuni. Il guru non insegna pappe predigerite, può anche non capire che cosa sia giusto o sbagliato, ma ha la capacità di stimolare la coscienza a percepire se stessa e le proprie potenzialità, riuscendo così a capire quel che gli è possibile capire, secondo i propri talenti.

Credo che nessuno sia in grado di assimilare un'idea o un concetto se non lo fa proprio, perciò, in questo senso, ciascuno insegna a se stesso. Dover fare io il mio maestro mi spaventa un po', perché temo di non essere all'altezza, ma essere mio allievo mi piace e mi diverte. Così ogni giorno, guardandomi consapevolmente (spero) allo specchio da maepolo, domando al mio riflesso: sarai capace d'insegnarmi qualcosa, oggi? Oppure dovrò accontentarmi d'imparare da me, come sempre? Di solito non ricevo risposte soddisfacenti, ma in questi giorni c'è una novità: la convalescenza dalla signora Ernia, che è stata asportata ma non se n'è andata in silenzio. Mi avevano detto che tutto il complesso dell'intervento sarebbe stata una stupidaggine, e invece….. Un bell'insegnamento, divertente ma tutt'altro che indolore. Mi torna alla mente: che ridere, tutti piangevano, ma non mi sento ancora maturo per parlarne. È un'esperienza che mi sta insegnando moltissimo e devo stare attento a non perdermi i dettagli. Comunque sia, mi dispiace di soffrire, ma son contento.


Un giorno dopo l’altro

Quanto son grato all’esperienza avuta!
Oggi son morto un poco, e da domani
La mia vita sarà un po’ più compiuta.



17 Il male amico

Da oltre una settimana l'ernia non c'è più, ma se n'è andata in modo tutt'altro che indolore, anche se ora comincio a star meglio e immagino che il miglioramento continuerà nei prossimi giorni. Non avevo dubbi che farsela asportare fosse un'esperienza interessante e istruttiva, però mi avevano fatto credere che la tecnica odierna rende tale intervento poco più di una stupidaggine, e confesso che c'ero cascato. Pensavo a qualche sofferenza e un certo disagio, ma per quanto riguarda la ripresa e la convalescenza i medici avevano fatto a gara per minimizzare: «potrebbe tornare a casa subito, ma la facciamo dormire una notte in ospedale per prudenza». Così avevo preso degli impegni a cominciare da qualche giorno dopo, ma quando l'ho detto al chirurgo dialogando sotto i ferri, la risposta è stata di tutt'altro tipo: «assolutamente no, una settimana di riposo possibilmente a letto e poi venti giorni di convalescenza a casa senza sforzi d'alcun tipo». Allora ho capito che ci sarebbe stato qualcosa di nuovo da scoprire.

Non voglio farla grossa, però l'anestesia locale, nell'insieme efficace, in talune fasi non ha impedito a forti dolori acuti di esprimersi a loro modo, e le ore successive non sono state uno scherzo, anche perché la pompa antidolorifica era bloccata e mi è stata sostituita con un'altra funzionante soltanto sei ore dopo l'intervento. Poi, la mattina dopo, quando ho provato a scendere dal letto ho creduto di non farcela, e nei giorni successivi certe posizioni diventavano ben presto insopportabili, con dolori improvvisi abbastanza intensi. Senza contare l'espandersi di un ematoma che è riuscito a distribuirsi in modo così gagliardo nelle parti basse da richiamare alla mente i berodi del Monferrato. Tosse e sternuti sono stati benevolmente moderati, un po' meno il riso che accompagna sempre i miei rapporti coniugali e familiari. Non farmi ridere, dicevo sovente alla mia sposa, ma che ci si può fare se lei è fatta così? Per fortuna ho imparato da tempo a ridere in sordina. D'altronde, dolore e divertimento convivono da sempre, tanto è vero che di solito le cadute suscitano ilarità, anche se possono essere drammatiche.

Probabilmente l'età influisce sulla ripresa, e da vecchi non si può pretendere…. Ma non voglio farla grossa: ora il dolore vero e proprio è andato in vacanza, e tutto quello che passa non esiste più: restano solo il ricordo e il monito. Certo che se stessi male in permanenza, mi dico, sarebbe diverso, ma ormai posso considerare l'evento un'altra buona esperienza premortale. E tuttavia fino a un certo punto, perché nei momenti difficili, di fronte alla classica tentazione di dire: non ce la faccio più, ho sempre sentita ben chiara una voce dentro di me ripetermi: non è vero, ce la faccio ancora! E tuttavia in questi giorni ho sentito sulla pelle l'importanza di sperimentare il senso dell'inefficienza, la mancanza di forze, la voglia di licenziare le sofferenze, o per lo meno invitarle a moderare le loro invadenti pretese. Per difendermi, istintivamente, mi sono scoperto più volte in ricerca d'uno stato di benessere passivo, per lasciare al tempo il tempo di guadagnare tempo.

Tra gli insegnamenti che ricordo di aver ricevuto nella mia vita c'è anche una strana teoria che uno dei soliti guru mi ha trasmesso con aria che non ammette replica: «nel mondo esiste una quantità fissa di dolore/sofferenza, perciò ricordati sempre che quando soffri tu stai togliendo sofferenza a qualcun altro». Una "dritta" che anche nel passato mi era stata di grande stimolo a ripetermi nei momenti drammjatici: ce la faccio ancora.

Ho sempre pensato che la Signora Sofferenza meriti rispetto, perché il male di questo tipo è un amico che avverte di pericoli maggiori, e se costringe al riposo non è per farci un dispetto. Capisco che se non avessi provato dolori sufficientemente intensi probabilmente mi sarei mosso in modo pericoloso, rischiando di compromettere o allontanare il ripristino delle mie funzionalità. Ma chi non vorrebbe, una volta recepito l'avvertimento, poter spegnere l'interruttore e dire al signor Male: ti ringrazio, caro amico, ma ora che ho capito smetti di tormentarmi. E tuttavia so bene che il buon proposito rischierebbe probabilmente di essere ben presto dimenticato, se non sostenuto in permanenza. Perciò va bene così: le sofferenze di questo tipo non m'impediscono di sorridere. Del resto, anche ora che il più è passato, il dolore talvolta si fa presente anche in maniera intensa, ma è diverso perché si accompagna alla sensazione che ormai non c'è più il rischio di conseguenze negative. Tutto sommato, potrei dire che è molto gentile: chiede solo di essere sopportato e basta.

Aggiungo che tra il sentirmi moderatamente bene o moderatamente male non ho mai avuto dubbi, anche perché il mezzo pieno mi ha sempre affascinato assai più del mezzo vuoto, perciò l'esperienza mi suggerisce che forse qualche passo avanti l'ho fatto, tanto che a volte mi verrebbe il sospetto di essere moderatamente felice, secondo la regola di Shangri-La. Durante questo allenamento alla pazienza, la mia solita straordinaria fortuna non mi ha mai nascosto neppure per un istante che il male mio fosse temporaneo, e la presenza della mia sposa mi ha aiutato parecchio. Perché se il male passa, l'amore non passa mai, e il nostro dura imperterrito e rigoglioso da oltre sessant'anni: che monotonia!

Augurarmi problemi e sofferenze sarebbe folle, però son ben cosciente che se mi andasse tutto bene non imparerei mai a morire. Per questo considero questo male, quello che sono invitato a sopportare, come un amico, anche se va da sé che a questo mondo ci sono ben altri tipi di male, e soprattutto dolori e sofferenze inflitte da una natura crudele o ancor più dalla barbarie umana, che sono nemici da combattere senza riserve, per quello che si può. La discriminante penso stia nella messa a fuoco: il male senza speranza è un nemico mortale (ma non mi è mai capitato di sperimentarlo), mentre quando la speranza resta presente, allora tutto è sopportabile.

In nessun momento ho mai perso la consapevolezza di essere abbastanza felice, e so bene che abbastanza vale più di molto, perché esiste il "molto ma non abbastanza", mentre quando è abbastanza sarebbe velleitario voler andare oltre. Tuttavia non mi sono trattenuto dall'immaginare, in certi momenti, che questo stato di debilitazione fosse ormai permanente e irreversibile. Nel pormi in uno stato prolungato di benessere passivo sentivo rallentare lo scorrere del tempo, mentre si accentuava la monotonia e mi sentivo tardigrado, sensazione che non mi è ancora passata, tanto che la mattina, a letto, talvolta mi domando: che bisogno c'è di alzarsi? Non potrei restare qui per sempre, nell'attesa che la vita si compia? Mi accorgo che un po' alla volta ogni mia velleitaria pretesa se ne sta andando (e se penso a quante ne avevo mi sembra un bel passo avanti). Capisco che in qualche modo, prima o poi, per ciascuno sta suonando il finale della sinfonia: le differenze stanno nella velocità. L’obiettivo è portarla fino in fondo e non interromperla arbitrariamente, ma il metronomo può variarne il ritmo, che può essere allegro, moderato, variabile, andante con brio, o anche lento, o prestissimo: dipende dalla concertazione che ciascuno sceglierà. Spero che il finale della mia sinfonia non diventi né una marcetta da burattini, né una lagna di rassegnazione. Quanto agli addii potranno essere più o meno abbondanti a seconda della composizione dell'orchestra, ma di quanti elementi sia composta la mia non l'ho ancora capito. Comunque sia direi che alcuni addii ci sono già stati, ma finché c'è qualche suonatore la musica può essere suggestiva e struggente. Dei tanti piccoli addii solo l'ultimo è definitivo, e conclude il concerto.

I monaci zen raccomandano di pensare a quello che si fa momento per momento, e in questo io sono sempre stato un disastro: mentre faccio una cosa tendo spontaneamente a pensare a quel che dovrò fare dopo, così mi faccio prendere dalla smania di finire alla svelta, anziché godermi tranquillamente il bello di quello che sto facendo (un po' me lo godo, non nego, ma non proprio tranquillamente, e quindi, forse, non completamente). Ma comincio a non averne più voglia. Dal punto di vista produttivo, che cosa vivo a fare, ormai? Per arrivare alla sera? E poi alla sera dopo? E poi, e poi? Alla sera di tutte le sere? Qualcosa dev'essere successo, il non mi va si accentua. Se mi mettessi ad elencare tutte le cose che non ho più voglia di fare starei fresco. Per esempio, sono affascinato dall'i-pad, specialmente da come lo vedo utilizzare con disinvoltura dal mio bisnipotino, che a sei anni fa impallidire gli esperti. Ma continuo a rimandarne l'acquisto perché so che dovrei imparare a usarlo. Quanto ci metterei? Qualche giorno, qualche ora, qualche minuto? Non importa il tempo, è che, mi accorgo, non mi va più d'imparare il nuovo, il che è l'esatto contrario di com'ero una volta. La cosa mi pare alquanto significativa, perché se è vero che potrei dire di aver passato tutta la vita a fare l'attendente di mestiere, ora mi sembra soltanto di dover aspettare che passi il tempo che mi è rimasto.

Si racconta che Leonardo, in punto di morte, più che dirsi soddisfatto delle sue molte creazioni, si dicesse turbato dalla coscienza di quant'altro avrebbe potuto fare. Anch'io ho coscienza di quel che avrei potuto fare, ma so che la stessa sensazione l'avrei anche se avessi fatto molto ma molto di più. Per dirla in altre parole, direi che sto progressivamente perdendo ogni velleità di combattere contro i problemi contingenti che mi sovrastano. Ricordo quando una mia figlia, la prima volta che ha visto il mare all'età di tre anni, dopo essere rimata letteralmente a bocca aperta per lungo tempo, se n'è uscita dicendo: «io non posso fare il bagno, è troppo grande per me!». Anche a me, ora, pare di avvertire il senso del troppo grande. Se mi addentro in qualcuno degli enormi centri commerciali che vanno di moda mi sento stanco appena entrato, quanto ai grandi supermercati mi creano un certo disagio, tanto che preferisco quelli più modesti, a dimensione umana. La confusione un tempo mi lasciava indifferente, ora mi turba. Perciò mi dico: che bello sperimentare tutte queste inquietudini! So che leggendo queste mie riflessioni molti non le capiranno, e non mi meraviglia, perché neppure io capisco fino a che punto capisco.


18. Libertà dai possessi

"Comincio a non averne più voglia" avevo detto nell'ultima puntata, e subito più d'uno mi ha scritto preoccupato per chiedermi se intendo riferirmi soltanto alle cose inutili. Confermo senz'altro che è così, solo che mi domando quante siano le cose inutili. Il 50% o l’80 o il 99 o il 100%? Se provo a pensarci comincio a identificarne molte, ma poi anche altre, e altre ancora, e non capisco dove potrei fermarmi.

I guru dicono che le cose di questo mondo si dividono in due categorie: quelle poco importanti e quelle senza alcuna importanza, indicazione che mi stimola a capire che i motivi per cui mi affanno sono, al massimo, poco importanti. Da tempo mi son reso conto che oggi non ricordo più quel che mi angustiava ieri, e mi domando perché dovrei disperarmi oggi per quello che non ricorderò domani. Mi azzarderei però a dire che sono bravissimo nella teoria, mentre in pratica vivo una realtà ben diversa: come sto male quando c’è da star male! Soprattutto quando sto in attesa di risposte che temo negative! E tuttavia mi sento ancor peggio da quando so che si tratta di cose al massimo poco importanti. Mi consolo dicendomi che almeno una cosa importante ci sarà, altrimenti su che parametro si potrebbe misurare il poco o nulla? Una sola cosa è necessaria, diceva Gesù a Marta che si perdeva nell'efficienza. Ho anche sentito dire che l'unico autentico valore è la trasformazione (dal negativo al positivo, dal limite all’illimitato, dal male al bene, dall’individuo all’insieme), ma se è così allora capisco che ogni cosa legata al cammino di trasformazione deve far parte di quelle poco importanti, mentre tutto il resto non ha importanza alcuna.

Se defunto vuol dire compiuto, una vita sarà compiuta quando avrà raggiunto il suo scopo, e quindi ogni aspetto parziale del suo itinerario apparterrà al passato. Come dire che questo mio attuale lavoro potrebbe durare anni, anzi, forse non finirà mai, se non, probabilmente, troncato all'improvviso senza un epilogo. Solo il risultato conta, e null'altro, perciò capisco che se intendo la mia vita come un possesso, tanto più nei suoi singoli aspetti, non imparerò mai a morire. Intuisco, in teoria perché non sono in grado di sperimentarlo, che essere illuminato non è un livello cerebrale ma libertà dai possessi: io non ne sono capace, ancora, ma il desiderio è quello, accompagnato dalla fragile speranza di poterci riuscire.

Temo sia piuttosto spontaneo vivere la vita come un possesso, e lo è anche per me: è l'unica che ho e l'idea di perderla m'inquieta. Ma trovo assai interessante leggere che San Paolo raccomanda, quando il tempo si fa breve, di vivere liberi dai possessi: chi compra come se non comprasse, chi usa del mondo come se non ne usasse, chi gioisce come se non gioisse e chi piange come se non piangesse. Potrei dire che più volte ho sperimentato i brillanti risultati che derivano dal comportarsi come se. Quando sono triste, comportandomi come se fossi felice ho visto più volte la tristezza stancarsi e alzare i tacchi. E quando mi sento egoisticamente pigro, comportarmi come se fossi disponibile ai bisogni altrui mi ha fatto gustare delle soddisfazioni impensate. Così, mi dico, non importa quanto le preoccupazioni mi turbano: se riesco a comportarmi come se non fossi turbato forse imparerò a coltivare uno stato d'animo tranquillo come il fondo del fiume, e non come l'acqua della superficie increspata dalle rapide.

Ma anche su questo versante sento l'ipocrisia in agguato. Se sono sazio non posso vivere come se fossi affamato, se sono ricco come se fossi povero, se sono al caldo come se avessi freddo: potrei solo fingere. Il fare tende a nascondere delle ambiguità rispetto al modo di essere, e tuttavia, d'altra parte, capisco che può aiutare l'essere a maturare meglio. Gesù Cristo, ad esempio, propone l'amore gratuito per tutti, amici e nemici, simpatici e antipatici, buoni e cattivi, ma si fa presto a dire….. Se però avessi il coraggio di comportarmi come se amassi, se compissi quotidianamente gesti d'amore applicato, forse col tempo imparerei perfino ad amare. Fantastico! Illuminante! E se provassi a comportarmi come se sapessi morire? Come se avessi già imparato? Eccomi di nuovo in crisi: come faccio, se non so quale sia il comportamento di un esperto in materia?

I buddisti predicano il distacco dai possessi, e anche gli stoici: forse il punto chiave sta proprio lì. Quanto ci tengo ai miei possessi? E che cosa vivo come un possesso? La casa che mi sono costruito con tanta passione e gradimento, si è fatta prigione o mi lascia libero di amarla e basta? E certi pezzi d'arredamento che la impreziosiscono, alcuni dei quali sono antichi oggetti di famiglia, li considero un possesso, o semplicemente oggetti d'uso? Per esempio quel meraviglioso specchio impreziosito nel rosone da strumenti musicali scolpiti in legno che sta sul comò nella mia camera da letto, primo a darmi il buongiorno ogni mattina, quanto lo considero un oggetto da guardare con gusto o quanto lo sento "mio"? Sarei tentato di dare una facile risposta, ma preferisco pensarci ancora.

Per quanto riguarda quadri e sculture, o altre opere fatte da me, non fatico a sentirmi libero, anche perché sono tutte espressioni del mio lavoro, create per essere messe in mostra a disposizione di eventuali acquirenti. Quelle che sono rimaste ad arredare la mia abitazione sono pur sempre a disposizione di eventuali estimatori. Ci sono poi i miei trofei sportivi: come potrei imparare a morire se continuassi a preoccuparmene, mi dico? Nei lunghi anni d'attività avevo raccolto circa 250 tra coppe e trofei, ma poi quelle d'argento autentico mi sono state rubate. Che peccato? Certamente i trofei sono un po' come una carta d'identità, ma dove finirei se continuassi a volermi distinguere? In fondo anche quei furti mi hanno spogliato da un rischio e mi hanno insegnato qualcosa.

Sul versante soldi, se ricco è colui che può spendere quello che vuole, io sono ricco perché voglio poco, e quel poco lo posso spendere. Quando imparerò a volere pochissimo sarò ricchissimo, ma su questo versante ho ancora da fare parecchia strada. Dei soldi che mi è dato disporre cerco di farne buon uso, senza sprechi, o per lo meno senza sprechi clamorosi. Non mi pare di considerarli un possesso da conservare con gelosia e li utilizzo in quel che serve, con parsimonia perché non voglio trovarmi domani in difficoltà. Quelli che posso spendere (sempre in pieno accordo con la mia sposa) li uso volentieri per noi due, per i figli e gli altri familiari, e qualche volta anche, se posso, per amici e conoscenti che hanno bisogno di aiuto. Qualcuno mi dice che sono generoso ma qualcun altro mi da del tirchio. E forse è proprio vero perché devo riconoscere, anche se mi sembra strano, che talvolta provo qualche difficoltà a fare l'elemosina ai poveracci di strada, soprattutto ai semafori. Sono proprio pieno di contraddizioni. E dato che non me la sento di fare come San Francesco, devo stare attento, perché forse un distacco totale dai soldi che si tengono in mano potrebbe indurre a spenderli sconsideratamente. Ma capisco che forse è un'altra ipocrita scusa.

Mi sentirei di affermare che i miei figli non li vivo e non li ho mai vissuti come un possesso, e tanto meno ora che si stanno avviando sempre più rapidamente a uscire dalla seconda età. Sono sempre stato d'accordo con Gibran che non sono figli nostri ma della vita, che li mettiamo al mondo ma non ci appartengono. Non nego di essere intervenuto più volte sui loro comportamenti, in passato, ma direi sempre quando venivano coinvolti altri familiari e lasciar fare significava anche penalizzare qualcuno. Da tempo, comunque, fanno la loro vita, e se qualche volta ci sono delle interferenze la tendenza è sempre di lasciare a ciascuno la soluzione dei propri problemi personali. Quanto ai nipoti, con i quali, tutti, ho rapporti affettuosissimi, ma proprio affettuosissimi, il distacco me lo hanno insegnato loro con un'accentuata indipendenza e con i loro dissensi.

Le amicizie mi hanno sempre trasmesso molto e non le ho mai vissute come un possesso. Con gli amici veri, pochi ma non pochissimi, si sono creati rapporti indelebili che non sbiadiscono neppure se capita di stare anni senza vederci, tanto è vero che quando ci vediamo il clima, tra noi, è come se ci fosse una frequenza quotidiana. Quanto alla mia sposa, lei mi dice che non ha mai percepito di essere da me considerata un possesso, in nessuna occasione. La stupida e banale gelosia non mi appartiene, e anche se a lei non sono mancati i corteggiatori ho sempre pensato che la fiducia non può essere condizionata dal sospetto. La mia fiducia in lei e nella sua determinazione a costruire insieme un rapporto vero e profondo non ha mai neppure vagamente oscillato. La sua presenza e i benefici che ne ricevo sono parte essenziale della mia vita, ma se anche dovesse lasciarmi, se anche dovesse precedermi nel compiere il suo percorso prima di me, penso che non mi dispererei, mentre mi dedicherei a tener vivo il ricordo e la gratitudine per le straordinarie esperienze che ha saputo farmi vivere. Naturalmente per esserne certo dovrei sperimentarlo, cosa che è l'assoluto contrario di quel che spero e mi auguro.

San Paolo raccomanda anche agli sposati di vivere come se non lo fossero, ma su questo mi guardo bene dal dargli retta: fossi matto! Non so quali tipi di matrimonio conoscesse lui, ma il mio è occasione di maturazione spirituale, strumento per coltivare l'estasi, proiezione verso il divino. La mia sposa è la componente più preziosa della mia vita, con tutto quello che ancora potrò apprendere da lei, e non sono mica scemo (si fa per dire) a fare come se non ci fosse.

19 Apprezzamenti e imbarazzo

Una cara amica mi ha scritto ponendomi una domanda: «Perché chiami "Cap" le riflessioni settimanali? Sarà un'abitudine da scrittore, o il segreto intento (magari inconscio) di farne un libro? Ma lo scopo conclamato della tua opera (imparare a morire, e perciò a staccarsi dalla vita) è di fatto la negazione di un progetto». E devo dire che ha ragione, non ci avevo pensato. In ogni caso però, comunque le si voglia chiamare, queste sono riflessioni a puntate senza altre pretese, sul momento. Se poi ci sarà un domani, si vedrà. Quanto all'idea di condividere via via questo mio studio, non posso proprio lamentarmi dei risultati, date le interessanti risposte che mi fanno pensare. E non solo pensare: certe volte mi lasciano perplesso e spiazzato, soprattutto quando si tratta di apprezzamenti che a volte, sinceramente, trovo un po' esagerati (cosa che, del resto, ho sperimentato più volte anche nel passato). Parlarne è tremendamente imbarazzante perché forte è il rischio di cadere nella presunzione, o nella falsa modestia, o nel narcisismo, o comunque in qualche forma d'ipocrisia. D'altra parte, quando uno si mette in testa di fare i conti con se stesso….

Ultimamente mi son ritrovato a sobbalzare sulla sedia quando ho letto in una e-mail: «come sei trasparente!». Magari, mi sono detto, perché la trasparenza potrebbe dirsi il cuore dell'insegnamento di Gesù: «sia il vostro parlare sì, sì, no, no, il di più viene dal maligno». Nel suo significato più profondo la trasparenza è il contrario dell'ipocrisia, la quale però, ne ho ben coscienza, continua a insinuarsi tra le pieghe e gli anfratti del mio essere, coi suoi modi subdoli e maliziosi! E poi, se guardo alla storia, solo pochissime persone mi appaiono trasparenti: Gesù, San Francesco, Gandhi, Socrate. Tra le donne mi viene in mente la piccola grande Teresa di Lisieux, che consapevolmente si è resa trasparente al punto da lasciar transitare attraverso di sé il soffio dell'amore divino: una giovane, isolata dal mondo, con scarsissime possibilità di comunicare, eppure capace di esercitare un'influenza profondissima sulla spiritualità.

La sola idea di essere trasparente mi fa ridere, ma contemporaneamente mi procura un brivido lungo la schiena, e tuttavia il fatto che qualcuno possa considerarmi tale mi stupisce e mi scuote ancor più. Come mai? Se trascuro le risposte semplicistiche e sbrigative, sento aumentare le perplessità. Una volta tendevo a ribellarmi quando mi venivano attribuiti valori o meriti esagerati, ma un giorno mi sono detto: se qualcuno mi vede migliore di quello che sono la sfida si fa veramente interessante, perché mi sento costretto a impegnarmi per non deluderlo. E così mi prendo le esagerazioni che mi stimolano a fare del mio meglio, per quello che posso (che strano: anche rimproveri e critiche mi stimolano a migliorarmi). Quando, parecchio tempo fa, ho letto su dizionari prestigiosi (come il Tommaseo o Il Rigutini e Fanfani) che l'umiltà viene definita «virtù per la quale l'uomo si reputa da meno di quel che è» mi sono detto: attenzione, qui l'ipocrisia la sta facendo da padrone. Ma come potrebbe essere considerata virtù considerarsi inferiori alla propria realtà? Da parte mia credo che umiltà sia l'essere coscienti dei propri talenti, né più né meno: il difficile è riuscirci.

Anche il ricordo di antichi apprezzamenti lontani nel tempo mi riempie ogni volta di stupore. Ma proprio a me erano diretti? Ai tempi delle gare in automobile non potrei negare che mi sentivo lusingato a vedermi definito dai giornali uomo da battere, o fenomenale, o inesorabile, o il migliore: per qualche anno, infatti, capitava che riuscivo a vincere più spesso dei miei concorrenti. Tuttavia, accanto alla soddisfazione potrei dire di aver sempre avuto chiara consapevolezza della mia sfacciata fortuna, e quando qualcuno mi diceva che non era fortuna ma bravura, ho sempre risposto convinto: come sono fortunato a essere bravo! Che le doti naturali non siano un merito di cui vantarsi è sempre stato chiarissimo, nella mia mente. Lo stesso vale per la pittura. Non è diminuito neppure oggi lo stupore di essere stato a suo tempo definito, da alcuni critici "un serio castigato autentico ricercatore di razza" autore di opere che "non offrono comprensione ma stupore e meraviglia" paragonate a "frecce di un allucinante e morbido candore" e addirittura a "singoli frammenti d'assoluto".

Che non sono un artista mi è molto chiaro: ne ho piena coscienza perché un vero artista non cessa mai di esserlo, e non potrebbe neppure volendo, mentre io sono così spesso desolatamente distratto! Però se guardo alcune delle mie antiche opere (solo alcune e non altre) mi sembra impossibile averle fatte io, non me ne sento capace. Ma siccome la cosa è certificata, che dovrei pensare? Che un angelo mi abbia guidato la mano? Oppure il caso? Non saprei proprio dire, salvo supporre che sia uno dei soliti stranissimi scherzi dello Spirito Santo. Non sono un artista, eppure, tra le varie stranezze che mi sono capitate c'è anche quella di aver fatto talvolta (a mia insaputa) qualche opera d'arte. Come è possibile? Si usa dire che i profeti esprimono cose più grandi di loro, ma forse questo vale anche per i comuni mortali. Proprio commentando una mia mostra il critico d'arte Renzo Guasco ha scritto: «E’ noto che un artista sa cosa vuol dire, ma non sa che cosa realmente dice. Ciò che soprattutto ci interessa è quello che inconsciamente mette nell’opera». Non sarà mica, mi vien da pensare, che a mia insaputa i miei lavori trasmettono trasparenza?

Per mia fortuna non mi sono mai mancate critiche e stroncature, sia riguardo la pittura che gli scritti. E tuttavia anche in questo campo taluni elogi sperticati non mi sono mancati, tanto che nell'attuale scambio di missive con i lettori c'è chi mi ha perfino accostato metaforicamente al Re Mida, specificando: «perché quello che tocchi e quello che ti tocca (ora c'è l'ernia) li sai trasformare in positivo» e aggiungendo che considera il paragone «un po' colorito ma non esagerato», sottolineatura che peggiora l'assunto: come potrei non sentirmi imbarazzato? Tra altre iperbole ricevute, inoltre, mi torna alla mente quella di un lettore del mio racconto fantareligioso: Nel nome di un Cristo clonato (persona peraltro di ottima cultura e abituale lettore di romanzi e saggi) che a suo tempo mi ha detto, visibilmente commosso, di non aver mai letto niente di più bello. Meno male che, per bilanciare, altri non si sono trattenuti dallo svalutarmi e disprezzarmi proprio quello stesso racconto.

Comunque sia tutto passa, anche le cose positive, anche i successi. Per esempio la mostra che mi hanno organizzato due anni fa per i miei primi 80 anni è stata un momento di gloria, ma poi è rimasto soltanto un ricordo sbiadito che (purtroppo o per fortuna?) scolorisce sempre più. Ma è anche vero che, al di là dei ricordi, certe cose accadute restano fissate per sempre. Che dovrei pensare, se non stupirmi? Per mia fortuna, temo talmente il rischio di montarmi la testa che forse (spero) riuscirò a non cascarci. Però devo anche aggiungere che quanto descritto finora in queste pagine non è nulla, si potrebbe dire, rispetto a un altro evento che mi ha talmente spiazzato da non avere avuto il coraggio, finora, di parlarne con nessuno.

Anni fa, nel mio racconto Il vangelo secondo mio nonno, avevo proposto, come interpretazione libera ma significativamente corretta, di tradurre il celebre versetto del profeta Isaia con: Angeli e diavoli danzeranno insieme, e giocheranno insieme i loro piccoli. Diverso tempo dopo, mentre navigavo sul web, ho trovato questa mia frase citata in uno scritto dal titolo: Lettera da Laodicea a firma P. Paolo Turturro (che non conosco e con il quale non ho mai avuto contatti né diretti né indiretti). Il sottotitolo della lettera è: Guardo con gli occhi di Dio e il testo mette di seguito una serie di riferimenti e citazioni, compresa quella mia. Ma lo strano è in quale compagnia mi sono ritrovato. Nientemeno che: Padre Pio, Madre Teresa di Calcutta, Maria (la Madonna), Isaia, San Giuseppe, Sant'Agostino, Sant'Anselmo, San Tommaso (d'Aquino), Santa Elisabetta d'Ungheria, San Francesco, di nuovo Maria, San Tommaso (apostolo), Santo Stefano, San Giovanni della Croce, Don Orione, Gesù, Carlo Carretto, ancora Gesù, San Paolo, San Pietro, ancora Gesù, David Maria Turoldo, Primo Mazzolari, Papa Luciani, e per ultimo, in mezzo a tanta grazia, nientemeno che il mio nome.

Che dire? Non avrei mai immaginato, ma proprio mai, che qualcuno potesse mettermi, unico sconosciuto, in compagnia di tali giganti (per non dire altro). Quando l'ho letto ho riso come non mai in vita mia, ma ho avvertito anche un fortissimo imbarazzo. Mi sento talmente spiazzato che non saprei che cosa pensare, se non trovare conferma che lo Spirito Santo dev'essere proprio un gran burlone, se sa combinare scherzi di tale genere! La cosa mi appare talmente grossa da non riuscire nemmeno a capire fino a che punto mi faccia piacere. Scherzare un po' va bene, ma però…..

Intimorito, come sono, mi vien da pensare che se, a mia insaputa, possono accadermi fatti così stravaganti, forse in questo mondo nulla è impossibile. E così, In mezzo a tanto frastuono mentale, sento risuonarmi nelle orecchie le parole del vangelo che dicono: «venite in disparte a riposarvi un po'». Meno male, grazie, ne ho proprio bisogno. Dopo un tale stress, per poter imparare seriamente a morire mi ci vuole una cura ricostituente.


P.S.Per gli interessati, riporto qui sotto il testo integrale della lettera citata.

Lettere da Laodicea: Guardo con gli occhi di Dio

Se affermo che Dio si presenta a noi come Assenza, come Tenebra, come Silenzio, sembra che mi urliate addosso: sei esagerato. Eppure niente è di più vero qui sulla terra. Esperienza vissuta da tantissimi santi, non ultimi P. Pio e Madre Teresa di Calcutta. La fede è la fiducia in Dio che ti crea autonomo e libero di crederci, di sperare, di pensare. Assenza non vuol dire nullità. E’ una presenza velata, discreta, che non impone, che lascia liberi di credere all’assurdità della sua pazzia d’amore.

Tenebra non vuol dire oscurità. Come comprendere Dio infinitamente luce, infinitamente sapienza? Quale uomo può ardire tanto? Il nostro cuore è pallido, è oscuro dinanzi al suo splendore, da non poter vedere a pieno, da non poter capire a pieno. E’ tenebra, perché Lo voglio vedere, ma per tutta la mia vita non appare a questi occhi. Non si fa vedere se non nella debolezza, nella piccolezza, nell’anonimato. Dio è Silenzio. Non ci parla nei nostri chiassi; non parla alle nostre orecchie.

Non ci parla nel nostro chiacchierare inutile. La fede mi fa vedere. La fede mi fa abbracciare. La fede mi fa palpitare. La fede mi fa donare tutto me stesso all’Assoluto. Posso totalmente abbracciarlo, vedere, contemplare. Anche Maria stringe tra le sue braccia lo "Sconosciuto". Anche Isaia grida:" il Dio nascosto." Anche Giuseppe grida: " il Dio - figlio, non suo ".

Nell’Assenza, cosa vedere? Nelle Tenebre chi guardare? Nel Silenzio chi ascoltare? Ed ecco i santi che nella contemplazione avevano fiducia nel Dio Presente. Ecco sant’Agostino: un bambino che sulla spiaggia di Cartagine vuole versare tutto l’oceano nella sabbia. Come versare tutto Dio nella propria testa? E’ la risposta dell’angelo. Ecco sant’Anselmo: quello che lassù vedremo, sarà tutto nuovo, tutto meraviglioso. Tutto inaspettato. Un vedere che non finirà mai.

Ecco san Tommaso: non cerco le cause della sua esistenza. Se in una valle c’è il fumo, là c’è anche il fuoco. Se c’è il creato, c’è il creatore. Cerco le sue braccia infinite, aperte sulla croce. Felix culpa, che mi ha donato un tanto redentore. Ecco sant’Elisabetta d’Ungheria: il Paradiso è qui, sulla terra. E intendeva il tabernacolo, l’Eucaristia. Ecco san Francesco: dove c’è odio, che io porti amore. Vede: fratello sole, sorella luna, sorella morte. Doni per vedere Dio.

Ecco Maria: Lo pose in una mangiatoia e Lo adorò. Ecco Giovanni, l’evangelista: Giovanni, questa è tua madre. E la prese in casa sua. Ecco Tommaso, l’incredulo: Ti vedo Signore. Dio mio e Signore mio. Ecco santo Stefano: Vedo i cieli aperti e discendere il mio Signore…Ecco san Giovanni della Croce: questa notte è oscura, non finisce mai. Già vedo oltre le tenebre della notte, oltre il sangue della croce, le tue braccia che mi stringono a salvezza. Ecco don Orione: solo la carità (riesce a vedere Dio) salverà il mondo. Ecco Gesù: Verremo a lui e faremo dimora presso di lui. (Gv.14,23). Che bello. Dio dimora già in noi. Trinità d’amore.

L’Amore fa Dio Uno. Ecco Carlo Carretto: Io sono abitato. Io non sono solo. Dentro il segreto del mio povero essere d’uomo c’è la Presenza di Dio. Ecco vedere e sentire l’uomo in Cristo Gesù. Ecco ancora Gesù: " Ed egli vide lo Spirito di Dio discendere come colomba. (8 Mt. 3,16). Ecco san Paolo: Ciò che per il mondo è debole lo scelse Dio per confondere quello che è forte. (1 Cor. 1,27). Ecco san Pietro: Signore è bello stare qui (a guardare). Costruirò tre tende. Una per Te, una per Elia, una per Mosè. (Gv. 6,35). Ecco ancora Gesù: Andiamo a valle…Ecco David Maria Turoldo: Questo incontenibile bisogno di amare che è Dio stesso. E di essere amato. Dramma di Dio e dell’uomo.

Amore che chiede amore. Amore che vede amore. Ecco Primo Mazzolari: Adoro Te, latens Deitas. Lo guardo come dei poveri occhi possono guardare tanto sacramento. Ecco Papa Luciani: cosa vede nel concistoro: dare il voto per un papa in questi momenti è un peso. Guardare è difficile. E’ pesante. E’ arduo vedere Dio nella storia, nei fatti dei nostri giorni. Ecco Antonio Thellung…angeli e diavoli danzeranno insieme e giocheranno insieme i loro piccoli (Il vangelo secondo mio nonno). E noi che cosa vediamo: ecco vediamo anche noi la famiglia (che è la famiglia di Dio). Ecco vediamo i figli (che sono i figli di Dio).

Ecco vediamo il lavoro (che è opera di Dio nelle nostre giornate). Ecco vediamo le nostre lacrime (che è il diluvio dello Spirito per purificare il peccato del mondo). Ecco vediamo le nostre preghiere (che è il gemito dello Spirito dentro di noi). Ecco vediamo come in uno specchio. Nel tuo pane, vediamo la vita eterna. Nei fratelli che soffrono, vediamo la tua croce. Nel mondo assetato di pace, sentiamo la tua pace. Nel tuo calice, gustiamo, assetati, la bevanda che ci salva. Ecco noi vediamo senza sapere che, in Te, siamo già nel cielo.

P. Paolo Turturro  http://www.dipingilapace.it/messaggi/messaggi.htm


20. Il paradosso della libertà

Non so se sto imparando qualcosa, ma mi sento come imprigionato da un'idea un po' ambigua di libertà. Se me lo chiedessero direi di essere libero di scegliere, ma poi, mi dico, fino a che punto è vero? E con quali condizionamenti? Mi sento prigioniero del paradosso. Ricordo che un tempo, quando da ragazzo amavo le idee curiose e stravaganti, mi piaceva particolarmente ragionare per astrazioni. Così un giorno mi sono detto: è corretto considerare Dio onnipotente? Se è Dio conoscerà tutto, quindi saprà sempre quale sia il meglio in ogni circostanza, e siccome è presumibile che non faccia mai nulla di men che buono, ma sempre e soltanto il meglio, è come dire che può fare una sola cosa. Quindi non è onnipotente, mi dicevo, ma unipotente. Poi però, ampliando la riflessione, ricordo che mi sono anche detto: è vero che può una cosa sola, ma è perché vuole proprio quella (il meglio). Così mi è sembrato corretto definire onnipotente chi è libero di fare quello che vuole, anche se vuole una cosa sola.

Al di là delle battute, trovo che il paradosso sia legato al concetto di libertà, che riguarda tutti, perché proprio tutti viviamo imprigionati in qualche condizionamento. Perfino Dio stesso, appunto, che, se non altro, non potrebbe essere diverso da Dio, non potrebbe sottrarsi ai condizionamenti della sua uni/onnipotenza.

Per quanto mi riguarda personalmente, non solo mi domando fino a che punto posso agire come voglio, ma mi piacerebbe anche capire meglio quali elementi costringono e condizionano la mia volontà. E così finisco per chiedermi quanto sono consapevole di me stesso e delle mie potenzialità, perché mi sembra ovvio che agire a caso rischia di portare a conseguenze incontrollabili, mentre una volontà autentica sarà direttamente proporzionata al grado di consapevolezza. Ma qui il paradosso si rafforza ancor più, perché se oggi scopro che la mia mente cognitiva è cresciuta rispetto a ieri, allora mi rendo conto che ieri mi consideravo più consapevole di quanto potessi essere, il che è inquietante perché altrettanto, ovviamente, varrà per il presente. Insomma, al crescere della consapevolezza si accompagna lo smarrimento per quella che ancora manca, più che il compiacimento per quella raggiunta.

Se insisto su simili ragionamenti è perché, confesso, mi divertono i bizantinismi, che seppure appaiano un po' artificiosi stimolano sempre a riflettere più a fondo. E così mi accorgo che mentre il casuale consente moltissime varianti, perché rinuncia a discriminare fra le alternative alla ricerca del meglio, una maggiore conoscenza aiuta a gestire se stessi con più libertà, ma lo fa eliminando molte possibilità di scelta proprio perché l'aumentare della consapevolezza ridurrà automaticamente molte velleità, dal momento che vengono riconosciute e messe allo scoperto. Così diventa ovvio che il massimo della presa di coscienza consentirà una sola scelta: il meglio, appunto. Il teorema è dimostrato.

In sostanza, siamo sempre condizionati da qualche cosa. Vi sono condizionamenti fisiologici e ambientali ai quali non possiamo sottrarci: per nascita sono obbligato a essere maschio, di pelle bianca, italiano, cittadino del secolo XX (ho anche il naso storto ma questo, volendo, potrei farmelo raddrizzare). E poi sono costretto a subire altri condizionamenti, sia per cause esterne che per mia scelta. Ad esempio, se sono nato e cresciuto a Genova è perché i miei genitori amavano vivere in quella città, e se ho conosciuto a Roma la mia sposa è perché mio padre si era trasferito con tutta la famiglia nella capitale per motivi di lavoro. Sposarmi invece è stato scegliermi un condizionamento impegnativo, deciso e voluto però da me (rabbrividisco al pensiero dei matrimoni combinati e imposti da decisioni altrui). Da sessant'anni ormai vivo pesantemente condizionato dalla scelta coniugale, felicissimo di averla fatta e di subirne le conseguenze ogni giorno. Ad esempio, è ovvio che non sono più libero di starnazzare nel campo di stimolanti nuove ricerche amorose, a meno di non indulgere a inconfessabili ipocrisie che, tra l'altro, mi costringerebbero a usare noiose cautele trapunte di lacci e laccioli. Ma su questo versante sono felicissimo di aver perso libertà.

Come dire che ogni scelta comporta una qualche rinuncia, e quindi condiziona le scelte successive con limitazioni di libertà che rinnovano il paradosso: ogni cosciente decisione contribuisce a far maturare un cammino di consapevolezza, e automaticamente riduce il numero di possibili scelte future. È dato che tra le varie possibilità una viene presa mentre le altre vanno tutte perdute, è chiaro che tanto meno consapevolmente sarà fatta quella scelta, e tanto più aumenterà il casuale e il caos.

Insomma, ho capito che se per libertà s'intende assenza di condizionamenti, allora non c'è alcuna possibilità di essere liberi, perché di condizionamenti ne ritroviamo sempre e comunque, e la paura di dovervi sottostare è il condizionamento peggiore. Insomma, ho ben capito che nel migliore dei casi posso trovarmi in libertà condizionata, e la discriminante sta nel fatto che i condizionamenti possono essere scelti oppure subiti: in questo secondo caso la libertà è ferita e assente, ma anche nel primo mi ritrovo pur sempre schiavo di qualche cosa. Ma una volta scoperto che libertà non è altro che poter decidere personalmente da che cosa farsi condizionare, ciò equivale a dire: libertà è scegliersi la schiavitù preferita.

Perciò continuo a chiedermi che cosa voglio, e quanto sia autenticamente consapevole e non velleitaria la mia volontà. Se il mio "volere" è proporzionato al capire, allora capir poco e male significa limitare il mio volere, e probabilmente anche deformarlo, o comunque renderlo fragile e sostanzialmente incerto. E quindi la mia libertà sarà illusoria, cosa che non cesso di ricordarmi ogni volta che mi accorgo, oggi, di volere cose diverse da quelle volute ieri. In altre parole, si fa presto a dire voglio "questo" o "quello", ma chi è in grado di capire a fondo fino a che punto è vero?

Da qualcuno ho sentito dire che la crescita della consapevolezza potrebbe essere paragonata a un orizzonte in espansione. Se siamo a livello del suolo su un deserto piatto o sul mare vediamo l'orizzonte a una certa distanza tutt'attorno a noi. Ma se ci alziamo in verticale con un elicottero o una mongolfiera ecco che aumentano le cose visibili perché l'orizzonte si allontanerà, ma proprio per questo aumenterà anche la sua circonferenza rendendo più ampio il confine con l'ignoto. Stupefacente! Mi torna alla mente il libro del Qoelet là dove dice: «quel che manca non si può misurare». Ma anche dove sottolinea che tutto è vanità e nulla può essere fissato in modo definitivo. Un testo illuminato che libera dalla presunzione, sia dei superficiali che dei supponenti, sia di chi dice inutile cercare perché tanto non si possono raggiunge risultati indiscutibili, sia di chi s'illude di poter trovare conclusioni definitive. La consapevolezza dei propri limiti impone invece di cercare senza sosta e senza stancarsi mai.

Le certezze mi sembrano sempre più simili a un tessuto liso e consunto, tale da non riuscire a sostenere pesi senza strapparsi. Probabilmente vivo con scarsa coscienza la potenzialità che è in me, eppure percepisco che l'incertezza non mi crea alcunché di angosciante, ma solo allegria, anche se condita da inquietudine. Mi verrebbe da dire che ho una sola certezza: quella di sbagliare: spero solo che non accada troppo spesso. Perciò continuare a cercare senza sosta, ma anche senza turbamenti, fa parte integrante del mio piano di studio.

Il traguardo

Mi son gettato la vita sulle spalle
come giacchetta leggera
e ora scendo a valle
sul far della sera.

Come sarà la notte?
Un sogno, una follia,
illusioni interrotte
o dolce melodia?

A lungo ho camminato
ma il traguardo
non l'ho ancora incontrato.

È al di là del mio sguardo.



21 Questioni di fede

Più di un lettore mi ha chiesto quale importanza attribuisco alla fede in questo mio studio, meravigliandosi che non abbia ancora affrontato l'argomento in maniera diretta. Rispondo che per me ha importanza fondamentale, ma finora ho scelto di aspettare a parlarne per due motivi: il primo è che qualsiasi discorso di fede rischia di restare intrappolato nelle ambiguità, e quindi credo necessario cercare prima di capire meglio me stesso, e in particolare le mie contraddizioni e il mio attaccamento a quello che possiedo. Il secondo motivo è che ne ho già parlato abbondantemente nei miei libri, e in particolare in Una saldissima fede incerta. Comincerò quindi a fare accenno alla fede in relazione all'obiettivo presente, ma senza soffermarmi su spiegazioni e dettagli, per non rischiare di scadere in qualche pseudo trattato di teologia che rischierebbe da un lato di non essere all'altezza degli specialisti, e dall'altro noioso per i lettori che amano la semplicità. Aggiungo solo che le mie considerazioni potranno apparire qua e là un po' ardite e provocatorie, ma non hanno la pretesa di convincere nessuno o di essere valide per tutti, perché fatico già abbastanza a capire quanto valgano per me.

Per quanto banale, la prima domanda con la quale confrontarsi mi pare che sia: Dio esiste? Da parte mia risponderei contemporaneamente sì e no, perché dipende da quale Dio s'intende. Molto spesso mi accorgo che gli atei negano quello che anch'io nego, perché, ad esempio, non credo in un Dio manovratore che mette il dito negli eventi naturali per fare accadere questo o quello, ma credo invece in un Dio che da significato a quel che esiste e accade. Di conseguenza (sono il primo a stupirmi) sento che nella mia fede c'è posto anche per il materialismo, che però, da parte mia, credo sia sostenuto da un significato e non dal caso. Perciò trovo sterile soffermarsi a discutere se Dio esiste o non esiste, mentre sono d'accordo con chi sostiene che la sua voce parla ai profeti e al cuore degli esseri umani: chi la sente non ha bisogno di prove, mentre per chi non la sente qualsiasi prova è inutile.

Quando m'interrogo, penso che il punto iniziale per poter parlare di quel che è più grande di noi sia purificare linguaggi e immagini, perché legato insuperabilmente all'antropomorfismo, come sono, so che non potrò mai sapere né capire nulla di quel che fa parte della dimensione transumana. Mi rimetto perciò al senso di trasporto che avverto nel mio cuore e mi accontento di una tenue intuizione. Perché se fede è proiezione nell'oltre,  avvolta quindi da un'insuperabile componente misteriosa, per quanto riguarda i significati credo tuttavia che qualcosa si possa immaginare e intuire, almeno a livello sufficiente.

Ciascuno ha i propri punti di riferimento più o meno espliciti (anche se non tutti li legano alla parola Dio). Personalmente, dato che mi sento attratto da quel che unisce, posso dire di credere nel Dio dell'insieme: un Dio che accoglie e non divide, che raccoglie quel che è disperso, che trasforma il male in bene, e non che separa il male dal bene. Il dualismo, che separa bene e male ponendoli l'un contro l'altro armati, non mi appartiene, mentre la fede mi indica il superamento delle posizioni di parte, che percepisco trascese e proiettate in quella dimensione divina che è, appunto, armonia d'insieme. Capisco che nel nostro ambiente, irrimediabilmente antropomorfico, le contrapposizioni siano inevitabili, però le vedo come elementi da superare e trasformare, e non da cristallizzare in senso positivo o negativo. La contrapposizione, direi, è tipico elemento della mentalità imperialistica che tende a dividere quelli dalla propria parte dagli altri: i primi da trattare benevolmente, gli altri da emarginare, scacciare, distruggere. Ma mi chiedo: che cosa m'importerebbe di una fede che radicalizzi le contrapposizioni in senso assoluto? Di un Dio tiranno che promuove i suoi ed è spietato con gli altri? La mia speranza m'indirizza diversamente. Per dirla in termini elementari, un paradiso creato a costo di escludere, schiacciare, condannare altrove i dissidenti non lo trovo per nulla attraente. Santa Teresa d'Avila diceva che «nessun cuore sensibile potrebbe sopportarlo». Insomma, nella mia fede percepisco un punto di riferimento chiarissimo e irrinunciabile: Dio trasforma il male in bene. Perciò qualsiasi aspetto o descrizione o immagine trascendente che ponga come fine la separazione per sempre del bene dal male non appartiene in alcun modo alla mia fede.

I punti di riferimento non sono concetti astratti, perché hanno ripercussioni concretissime nelle vicende di vita. Ad esempio, per quanto riguarda il nostro ambiente terreno, così ambiguo e contraddittorio, sarebbe ovviamente assurdo lasciare il male libero di far danno a suo piacimento senza intervenire, per quanto possibile, a contrastarlo: non sarebbe infatti giustificato basarsi solo sulla speranza che prima o poi interverrà lo Spirito Santo, o chi per lui, a rimettere le cose a posto. Ma c'è una grande differenza tra le azioni volte a riscattare e trasformare il male in bene (pur con tutte le difficoltà), e la contrapposizione indirizzata volutamente a colpire, schiacciare, emarginare,  uccidere, eliminare l'avversario. Credo che nella vita vissuta questi due punti di riferimento costituiscano una discriminante di fondo. In altre parole, i comportamenti di chi si propone di lavorare per trasformare il negativo e riportarlo nell'armonia d'insieme saranno molto diversi da quelli che hanno come punto di riferimento la contrapposizione per principio, col fine dichiarato di separare il negativo dal positivo. Chi lavora al ricupero sarà sempre orientato a capire, a offrire nuove opportunità (porgere l'altra guancia), a ricominciare a tessere nuove trame, a esercitare la pazienza dopo ogni scontro, a non gettare mai la spugna, a non rassegnarsi né scoraggiarsi mai, assumendo come atteggiamenti naturali la tolleranza, la comprensione, la benevolenza, la capacità di mettersi nei panni degli altri. Quelli che invece sono per la contrapposizione non cercheranno di comprendere i punti di vista altrui, anzi non ci proveranno neppure, perché ciò renderebbe difficile mantenere le proprie posizioni e portare alle estreme conseguenze lo scontro frontale.

Riuscire a trasformare il male in bene appare un'utopia, forse, per noi umani, ma a livello divino? Dobbiamo pur concedere alla genialità divina di sapersi inventare un modo per raggiungere l'armonia d'insieme, senza ingiustizie per nessuno. Altrimenti che Dio sarebbe? Che cosa gli servirebbe essere Dio? Ovvio che nei nostri limiti non possiamo capire come, e tuttavia ecco il nucleo di un'idea che mi attira senza riserve, ecco un'ipotesi che conquista in pieno il mio essere e il mio sentire, proprio perché mi appare un'ispirazione di natura divina. Se pure si tratta di un obiettivo difficilissimo da mettere in pratica, resta tuttavia limpido e indiscutibile per coloro che guardano a Gesù Cristo. Per questo mi sembra corretto credere che un giorno angeli e diavoli danzeranno insieme, e giocheranno insieme i loro piccoli, come già diceva metaforicamente il profeta Isaia.

Come esempio emblematico ricordo una persona non priva di debolezze e difetti, ma con un grande cuore, che pregava tutte le sere per i dannati. Non per quelli che temeva potessero finire all'inferno, ma proprio per i dannati, quelli giudicati teologicamente irrecuperabili, chiunque fossero. Cristiano ligio alle regole e rispettoso delle autorità qual era, non metteva in discussione la teologia tradizionale, però non poteva accettare che a qualcuno, per quanto immerso nel male, fosse negata ogni ulteriore trasformazione, ogni possibile ricupero. Quello che freddi legalisti definiscono senza più alcuna speranza, il povero cuore di un essere umano sensibile non può smettere di continuare a sperare. Il riscontro nella vita quotidiana appare lampante: come potrebbe mai fare del male a qualcuno chi coltiva tali sentimenti?

Questa la sintesi estrema della mia fede: Dio trasforma il male in bene. E trovo conforto nel Prologo del Vangelo di Giovanni che mi sembra dica con chiarezza la stessa cosa, in particolare nei suoi primi tre versetti. Ecco il senso profondo che traspare: Dio è redentore per essenza (di principio), mentre la creazione è un derivato. Tradotto in termini antropomorfici è come se Dio dicesse: dato che il mondo (limitato per natura) sarebbe comunque un disastro, prima ancora di crearlo mi predispongo a ricuperare costantemente i suoi limiti per riportarlo a me. In altre parole, non potrei mai credere a una creazione che è di mano al suo creatore, col risultato di costringerlo poi a intervenire in modo drammatico e doloroso per tentare di rimediare. Credo invece che la genialità divina abbia legato le inevitabili contraddizioni terrene  alla scelta di riscattarle a priori comunque in senso positivo, qualunque cosa accada (ho sviluppato l'argomento in diversi libri, ad esempio in Una saldissima fede incerta, in particolare alle pagine 115/120).

Gesù Cristo ci ha parlato di un Dio che non separa ma trasforma senza abbandonare mai nessuno, ma poi i teologi ne hanno inventato di teorie per svalutarne l'immagine! Per questo motivo credo che Dio ami prima di tutto gli atei: perché sono quelli che lo maltrattano meno.

22. La via peggiore

C'è chi mi accusa di essere complicato e cervellotico, col tornare più volte a confrontarmi sugli stessi argomenti, cosa che rischia di rendere la ricerca pesante e faticosa. Può darsi che sia vero, fatto sta che temo gli inganni psicologici atti a scansare gli ostacoli per favorire le scelte più comode. L'invito alla semplicità è un leitmotiv che sento ripetere spesso, ma non c'è rischio, mi chiedo, di scadere nel semplicismo? L'elogio della fede semplice si potrebbe dire un classico, un'immagine che mi affascina, e tuttavia mi domando se è proprio vero che la fede incarnata concretamente nella vita quotidiana non richieda studio e ricerca, non richieda un solido supporto di sostegno. Personalmente scorgo in vari aspetti del messaggio di Gesù Cristo molti punti di riferimento capaci di mettere in guardia dai rischi d'inganno, ma approfondirli non mi pare facilissimo.

Più volte mi sono sentito accusare di complicanze mentali, anche con toni di rimprovero e riprovazione quasi avessi il gusto di crearmi volontariamente ostacoli sul cammino di ricerca e di vita. Ma il rischio che più temo, ripeto, è di confondere semplicità con semplicismo. E mi torna alla mente quel che diceva San Giovanni della Croce: L’anima cerchi sempre di inclinarsi non al più facile ma al più difficile: non al più saporoso ma al più insipido; non a quello che piace di più ma a quello che piace di meno; non al riposo ma alla fatica; non al conforto ma a ciò che sconforta; non al desiderio di qualcosa ma a non desiderare niente”. Altro che impostazione faticosa! Altro che impegnativa!

Salvo coloro che si lasciano vagabondare a caso in una sorta di turismo spirituale, ciascuno sceglie una via da percorrere, che può essere un cammino religioso, o psicologico, o legato a una qualsiasi scuola spirituale, o culturale, o scientifica, oppure a una qualche scelta autodidattica. Ma ogni via ha delle sue regole da rispettare. Alcuni percorsi sono aspri e scoscesi, altri più dolci e riposanti, e non si può certo biasimare chi preferisce una via semplice e piana. Tuttavia ci sono alcuni, come appunto persone del calibro di San Giovanni della Croce, che consigliano altro. Personalmente sarei portato a pensare che tutte le strade offrano percorsi interessanti, ma non tutte conducono a conclusioni positive. Temo che alcune, come ad esempio quelle importate sulla violenza e sul sopruso, o sull'edonismo senza freni, siano destinate a brusche interruzioni o sbandamenti. Ma anche alcune altre basate sul disimpegno e la faciloneria. O, per dirla in altri termini, credo che alcune non consentano di giungere a risultati compiuti. Anzi, per usare ancora altre parole, credo che su certe strade sia pressoché impossibile imparare a vivere, e quindi a morire, mentre chi si pone un tale obiettivo vede ridurre di molto il ventaglio delle scelte.

Capisco che qualcuno possa trovare troppo impegnativa, o addirittura colpevolizzante, l'idea di doversi misurare su precisi punti di riferimento, e avvertire per questo forti resistenze psicologiche. Quanto a me, che credo invece necessario un deciso confronto legato e continuo su parametri ben scelti, nel prendere atto che sovente sento la mia strada criticata e contestata non manco di verificarla con frequenza, ma ogni volta (almeno fin’ora) continuo a pensare che per me vada bene così. Ho capito però che altri non la trovano adatta, e perciò tengo ad assicurare che non la considero affatto la migliore. Anzi, talvolta mi viene il sospetto che sia la via peggiore, e mi consolo dicendomi che anche la peggiore avrà diritto di essere percorsa da qualcuno.

E qui c'è un altro paradosso, perché chi trasmette un messaggio si presenta (ovviamente) come incarnazione del proprio credo, come primo seguace di se stesso. Ma io resto prigioniero dell'incoerenza e di quelle contraddizioni che vorrei riuscire a identificare e smascherare. Insomma, potrei dire di essere il primo nemico di me stesso, del mio credo, delle mie scelte. Ma forse (m'illudo?) è proprio perché lo riconosco senza difendermi che sento la speranza prendermi per mano.

Comunque sia, insistere sul pericolo di finire fuori strada a me non crea problemi, non mi spaventa, né sento prevalere il timore sulla fiducia o il pessimismo sulla speranza. Tutt’altro, convinto come sono che il solo tentare di rendersi consapevoli delle difficoltà può già aiutare a ridurre qualche ostacolo, qualche equivoco, qualche ambiguità, o per meglio dire tutti quegli elementi che sono un continuo invito a voltarsi indietro. Per questo gradisco assai più le critiche che gli apprezzamenti, perché costringono a non dar nulla per scontato e a rimettersi continuamente in discussione, anziché abbassare la guardia e cristallizzarsi compiaciuti nelle posizioni raggiunte. Per fare un esempio, supponiamo di vivere sull’orlo di un baratro: a me sembra ovvio che il rischio di cadervi dentro sarà tanto minore quanto più se ne studieranno i contorni e le caratteristiche. Mascherarselo e illudersi che non vi sia, invece, farà aumentare di molto il pericolo. L’esempio è tutt’altro che astratto, perché molte persone vivono realmente sull’orlo di un baratro, ad esempio in certe zone aspre e impervie del nostro pianeta dove avvengono frequenti calamità naturali. Ebbene, gli abitanti di quelle zone riescono a sopravvivere perché ne conoscono i pericoli, e si attrezzano per affrontarli in maniera adeguata. Si potrebbe dire che in ogni vita c'è un suo baratro, grande o piccolo che sia, e comunque nella mia c'è, e sono contento di essermene accorto. Non so se altri preferiscono bendarsi gli occhi per non vedere.

È sempre talmente pieno di contraddizioni il percorso che la vita ci pone davanti, giorno dopo giorno, che un'attenzione scarsa rende altissimo il rischio d'inciampo. E tuttavia questa consapevolezza non m'impedisce di percorrere un cammino di gioia, ricco di stimoli affascinanti e anche divertenti. Basta accorgersi che la direzione di marcia è indirizzata verso altre dimensioni, anche se appena intuibili, per trovare un nuovo stato d’animo intriso di stupore e meraviglia. A patto però di restare ben consapevoli che il rischio d'illusione e d'inganno è sempre lì, in agguato.

La mia fede mi indica il messaggio di Cristo come invito a essere coscienti e coerenti, ciascuno come può, secondo le proprie caratteristiche. E capisco la voglia di chiedersi: ma è così complicato essere cristiani? Mi verrebbe da rispondere si e no a un tempo, perché il grado di complicazione è direttamente proporzionale al proprio modo di porsi davanti al problema: tante più resistenze si fanno ad approfondirne il senso e a cercare di metterlo in pratica, tanto più diventa concretamente complicato. Trovo che la via indicata da Cristo sia ricca di meraviglie, ma come goderle pienamente se resta il tarlo dell'ambiguità, dell'equivoco, dell'incomprensione? Se resta il dubbio che, sotto sotto, permanga qualche sottile ipocrisia? Nessun impegno, nessun lavoro, nessun confronto rigoroso è un prezzo troppo alto per raggiungere quella tranquillità d’animo che accompagna un cammino creativo.

Direi, per mia esperienza, che dopo averne preso atto diventa più facile porsi davanti a Cristo (o al significato che rappresenta) senza timori e pregiudizi, ed è allora che il rapporto diventa semplice e ricco di leggerezza (il mio giogo è dolce e il mio carico leggero, diceva Gesù). Un modo valido, ad esempio, può essere quello di sedersi di fronte al mistero: può andar bene il sedile di un qualsivoglia luogo davanti all'infinito, ma anche una sedia fra quattro mura o la panca di una chiesa. Dopo aver assunto una posizione comoda e rilassata non resta che offrirsi all'ascolto dell'incomprensibile. Non importa interrogarsi su quale senso abbia, l'importante è dire: eccomi.

Anche se un tale rapporto ha un senso non antropomorfico, si possono esprimere pensieri o sensazioni come se si stesse parlando con qualcuno, tipo: non capisco, ma mi piacerebbe capire; il tuo mistero mi interessa; mi metto qui davanti a te così come sono; riconosco la mia modestia, la mia incapacità, la mia vigliaccheria, e te la offro; sono agnostico, scettico, diffidente, ma mi piacerebbe aver fiducia in te; sono inquieto, angosciato, turbato, ma tu mi interessi, mi attrai, mi piaci; vorrei capirti meglio, trovarti più facilmente, sentirti più vicino; mi piace stare qui con te; soffro delle mie incoerenze, ma resto qui con te; non riesco a capire bene, ma resto qui con te. Ogni giorno starò un po’ qui in meditazione silenziosa. E comunque siano i risultati continuerò a passare ogni giorno un po’ del mio tempo con te.

Anche quando il proprio stato d’animo è turbato, contorto, scoraggiato, i frutti prima o poi maturano lo stesso, purché il tentativo sia portato avanti con costanza e fiducia: chi persevererà fino alla fine…. Mi sovviene un pensiero del monaco Silvano del monte Athos che, pur impegnandosi in una vita di contemplazione e di preghiera, raccontava di sentirsi circondato da demoni che lo tormentavano. Allora, pregando il Signore per capire che cosa fare, diceva di sentirsi rispondere: resta all'inferno e non disperare.

Mi accorgo che, lasciando ambiguità e ipocrisie fuori dalla porta, non ha tanta importanza lo stato in cui ci si trova: ciò che conta è perseverare nella speranza. La propria realtà personale del momento, per drammatica che sia, non impedisce mai di porsi in spirito di preghiera di fronte al mistero della realtà globale. Bastano anche pochi minuti, purché ripetuti quotidianamente senza stancarsi. Anche questo é forse troppo difficile? Chi ha il coraggio di provare? Nel Vangelo c'è scritto che non perderà la sua ricompensa.

Da tempo non mi chiedo se, quando prego, qualcuno mi ascolta: mi basta ascoltare me stesso per avvertire meglio le mie incoerenze. E poi i mistici dicono che quando preghiamo Dio pone l'orecchio sul nostro cuore. Personalmente penso si tratti di un buon metodo per imparare, per entrare in clima confidenziale con nostra sorella morte, ma non riesco a perseverare abbastanza perché mi lascio ancora distrarre da pensieri e preoccupazioni che mi sembrano importanti, anche se so bene, nei rari momenti d'illuminazione, che sono senza importanza alcuna.

C’è però un interrogativo che m'insegue senza stancarsi: non sarà che mi distraggo per paura d'imparare troppo in fretta?

23. Programmi e complotti

Parecchi anni fa un saggio che vestiva all'orientale mi ha chiesto a bruciapelo: tu vuoi essere felice? Ovviamente mi è parsa una domanda pleonastica e ricordo di aver risposto con qualche battuta. Ma poi quella domanda me la sono portata dietro, finché ho capito che la messa a fuoco non è sulla felicità (e chi risponderebbe di no?), ma sulla parola "vuoi". Così continuo a chiedermi che cosa voglio, concretamente. Dico di volere tante cose, ma fino a che punto è vero e non teoria? Se in concreto volere significa impegnarsi con tenacia per realizzare l'obiettivo, allora quante volte dico voglio senza un'autentica determinazione?

Se, al di là delle parole, guardiamo alla realtà di fatto, mi viene il sospetto che moltissime persone, pur benestanti, di fronte alla domanda: vuoi essere felice? in sostanza risponderebbero: felice io? no grazie! Perché se si tratta di spensieratezza e faciloneria tutti sarebbero disposti a (dis)impegnarvisi, ma una felicità che costringa a lavorare per liberarsi dai limiti, dalle contraddizioni, dall'individualismo, dalla solitudine, chi la vuole? Mi sono accorto che se piango sui miei guai è facilissimo trovare ascolto e comprensione, tanto da sentirmi rispondere frasi tipo: è vero, è vero, capita anche a me, come siamo sfortunati! Ma se mi mostro felice, e soprattutto se provo a dire che si può imparare a esserlo, allora finisco per sentirmi trattato come un nemico. In proposito, più volte mi è capitato di ricevere delle risposte che di fatto significano: ma come ti permetti! Sei un illuso e non ti voglio neppure ascoltare! Infatti, chi non vuol far la fatica di cercare deve dire che è impossibile trovare; chi si muove a caso deve dire che non si può avere una direzione di marcia; chi è scontento della sua vita deve dire che dipende dalla sfortuna e non da sé. Altrimenti si sentirebbe in colpa a non muoversi, a non impegnarsi, a non studiare per uscire dalla ragnatela del casuale.

Soprusi, rivalse, malignità: quale fascino sanno esercitare se trovano tanto facilmente seguito? Ma la felicità, al contrario, bisogna volerla prepotentemente per potersi liberare da quei macigni che si chiamano pregiudizi e luoghi comuni. Ricordo che quel saggio orientalista mi aveva anche dato una dritta: se vuoi essere felice coltiva la gratitudine. Un'indicazione semplice, elementare, eppure la comune vita sociale ci educa a ben altro. Il dare-avere dev'essere in pareggio, altrimenti ci si perde in dignità. Se qualcuno ti fa un piacere devi contraccambiarlo con un regalo, perché sentirsi in debito diventa terribilmente imbarazzante. Che stupore ho provato, invece, quando ho scoperto l'efficacia dirompente di un semplice grazie, detto col cuore! Se ti faccio un piacere, il regalo più grande che puoi farmi è sentirti grato e coltivare la gratitudine, perché un simile stato d'animo ti renderà capace di guardarti attorno pronto a dare aiuto a chi ne ha bisogno. È questo il modo migliore di sdebitarsi: creare una catena di persone capaci di far rimbalzare la gratitudine. Quali sarebbero i risultati? Sorridi e riceverai sorrisi, mi verrebbe da dire: so bene che l'utopia è sempre in agguato, ma sognare un po' non guasta.

Personalmente non fatico a sentirmi grato per tutti i privilegi che ho: questo l'ho imparato. E ne faccio tesoro, e voglio coltivare la gratitudine cercando di vivere positivamente quel che capita, bello o brutto che sia. Ma il brutto che incontro, in fondo, è sempre in qualche modo relativo, perciò non mi è difficile. Come mai allora, mi domando, provo fastidio per tutte quelle complicazioni che mi assalgono ogni giorno, per quelle banali rotture di scatole così invadenti da condizionarmi l'umore? Quanta importanza avranno?

Trovo ogni giorno conferma che percepisco il senso dell'inutile, e che tendenzialmente non mi andrebbe più di far niente, mentre col passare del tempo m'interessa sempre di più osservare le sensazioni che provo, e sempre meno le riflessioni mentali. E mi accorgo di essere molto cambiato. Un tempo, quando il futuro mi stava davanti, cercavo di analizzare le varie prospettive, facevo un programma, e poi mi davo da fare per realizzarlo. Ma il "darsi da fare" oggi non mi va più. Se comincio a fare qualcosa mi stanco subito, ma non nel fisico, nella mente. È come se avessi il cervello irritato, infiammato per una superattività caotica e disordinata, non tanto di quelle che producono stanchezza fisiologica, ricuperabile con il riposo notturno, ma una qualche forma di sovraccarico psichico. Insomma, uno stress. Questa sensazione, in particolare, riguarda il recente passato, perché l'anno trascorso è stato per me micidiale quanto a preoccupazioni e ansie. Dal peggio ora in qualche modo ne sono uscito, ma mi sento come se avessi il cervello convalescente, con un gran bisogno di farlo riposare.

Che cosa significa? Una conferma che non sono più produttivo? Che bellezza, mi verrebbe da dire, ma non saprei. Fatto sta che fatico moltissimo a concentrarmi su questo studio per l'affacciarsi di tante resistenze non previste, come se qualche forza oscura complottasse per impedirmi di proseguire il cammino. Ora io non credo che nella realtà esistano forze oscure celate nell'ombra per interferire con le vicende di questo mondo, però certe volte mi verrebbe quasi la voglia di crederlo, e mi spunta perfino il sospetto che sia la natura stessa, nella sua ribollente complessità, a essere complottosa. Chissà se tutte queste resistenze vogliono insegnarmi qualcosa? Vivo in permanenza come se fossi impegnato a smaltir l'arretrato, un eterno arretrato. Come se dovessi terminare quel che sto facendo per poi trovarmi, finalmente, libero di potermi dedicare con calma ai miei studi mortali. Ma non termino mai perché nuove necessità e nuovi carichi si aggiungono continuamente. Così mi chiudo sulla difensiva, come se dovessi attendere che finisca di passare il temporale, l'uragano, lo tzunami. Cerco di sganciarmi dallo stress facendo cose nient'affatto impegnative, ma con scarso successo. Talvolta, per rilassarmi, mi dedico a qualche giochetto sul computer, ma di quelli semplici dove c'è da spostare qualcosa senza dover pensare. Un tempo mi piacevano gli enigmi più difficili, e più era complicata la soluzione più ne traevo soddisfazione. Oggi preferisco i solitari che vengono facilmente, altrimenti finisco per sentirmi frustrato e li abbandono a metà. Oppure, qualche volta, gioco a Peppa la scivolosa (sul computer si chiama Hearts) ma mi scoccia perdere, anche se non me ne importa nulla. Lo stesso potrei dire per il tifo che ho sempre fatto per il Genoa e per le Ferrari: ci tengo, ma non me ne importa nulla. Il bello è che non riesco più a capire se mi fa piacere o mi dispiace (che non me ne importa nulla).

Devo stare attento a non lasciarmi intasare la mente, altrimenti rischio di ritrovarmela così impicciata da non riuscire neppure a ricordare che devo solo più imparare a morire. Una delle cose più stressanti, per me, è dover aspettare risposte, di qualsiasi tipo. Vale a dire, sentirmi costretto in standby da decisioni (o indecisioni) altrui. Più volte, nel passato, dopo aver tentato di coinvolgere altri in nuove iniziative per uscire dalle abitudini e dai luoghi comuni, mi sono ritrovato da solo al punto di partenza. Potrei dire d'aver fatto, per tutta la vita, l'attendente di mestiere, nel senso di trovarmi sempre in attesa di risposte, ma oggi non ho più voglia di correre dietro l'orizzonte, d'inseguire risultati. Futuro, presente e passato: sento tutto dietro le spalle, eppure sovente mi distraggo e mi faccio ricatturare da qualche ricordo birichino. Se è vero che da un po' di tempo avverto il gusto di coltivare l'inefficienza, l'educazione efficientistica ricevuta s'industria a non lasciarmi in pace. Ho del talento? Non ci guadagnerei proprio niente a volerlo negare, ma oggi lo avverto con un certo disagio, quasi a dovermi vergognare nelle mie aspirazioni a non far nulla. Mi piacerebbe essere un mediocre, magari un mediocre eccezionale, non per qualcosa in più del normale ma per libertà dagli schemi. Fatto sta che il mio rendimento è diventato scarso, e mi restano solo gli ultimi sprazzi di un orizzonte invaso dalla foschia.

Quante cose incompiute! Di fronte al sorgere di nuovi problemi talvolta sento spuntare la voglia di abbandonarmi al pensiero: meno male che fra un po' non ci sarò più. Ma so che se aspetto di aver esaurito le preoccupazioni per dedicarmi ai miei studi conclusivi sto fresco. Sovente non riesco ad avere un momento di respiro, e non capisco se è un fatto oggettivo, oppure se dipende da una mentalità contorta come la mia. Insomma, mi piacerebbe sapere se dipende dalle mie caratteristiche personali, oppure più genericamente dalla natura umana, ma chi può entrare dentro la testa altrui per verificare oggettivamente, dall'interno, similitudini e divergenze?

Chissà se qualcuno (o qualcosa) riuscirà a insegnarmi quello che uno zuccone par mio fatica così tanto a imparare! Il senso del non compiuto mi tranquillizza e m'inquieta a un tempo, avrei voglia di mettermi a dormire, ma anche di vegliare per attendere l'aurora. Ma forse la vita stessa, limitata per sua natura e quindi costretta a dipendere dall'inesorabile trascorrere della cronologia, non è altro che tempo d'attesa del compiersi di qualcosa che non riesco a capire bene che cos'è. Chissà per quanto tempo ancora non riuscirò a licenziarmi dal mio antico mestiere di attendente.


24 Le notti brave

Sessant’anni di matrimonio, non so se qualcuno ne comprende il senso! Da parte mia temo di no: non abbastanza. Ma com’è possibile, mi domando? Sessant’anni, ripeto, mica bruscolini! E per di più di matrimonio felice! Capisco che in quest'epoca di fallimenti sempre più abbondanti fare l'elogio della vita coniugale appaia provocatorio, ma come potrei rinunciarvi? Personalmente mi ci trovo benissimo con la mia eterna sposa, così diversa da me da costringerci a un lungo cammino anche conflittuale, per poter raggiungere l’armonia. Ma poi ci siamo riusciti, e così da lungo tempo stiamo bene insieme, avvolti da quel senso di complicità che inserisce nelle nostre frizzanti giornate quotidiane una continua alternanza di commozione e divertimento.

Quella fiducia che fin dall'inizio due sposi decidono di concedersi l'un l'altro, ma che di fatto è semplicemente un auspicio da sottoporre a severe e ripetute verifiche, per noi si è ormai consolidata rendendoci lo stato d'animo tranquillo anche quando siamo assaliti da preoccupazioni (che non sono né poche né lievi). È il tempo dedicato al confronto, al contrasto, alla condivisione permanente, al coinvolgimento reciproco, che ci ha schiuso le porte dell'intimità più profonda, trasformandoci dall'io e te al noi due assieme. Un duale, appunto, come non manchiamo di sottolineare in ogni occasione: un duale perfettamente integrato.

Come il vino buono migliora invecchiando, così noi possiamo dire altrettanto per il matrimonio. L'amore è bello a tutte le età, e noi ricordiamo l’evolversi del nostro, cresciuto attraverso le diverse stagioni: sposi, genitori, nonni, e perfino bisnonni. Ma sempre sposi, oggi e domani (e speriamo anche dopodomani). La metafora del formaggio continua a sembrarmi calzante: ce ne sono di tutti i tipi, dai freschissimi ai super stagionati, e tutti buoni, ciascuno a suo modo. Non si può dire che l'uno è migliore dell'altro, perché sono semplicemente sapori diversi, soltanto che il formaggio fresco lo si può gustare da subito, appena fatto, mentre sarebbe impossibile conoscere il sapore del parmigiano senza attendere pazientemente che trascorra tutto il tempo necessario alla stagionatura. E ora che per noi questo tempo è trascorso, ci gustiamo l’amore parmigiano. Probabilmente chi non lo conosce non ne avvertirà la mancanza, ma chi lo conosce non può far altro che dire: provare per credere.

Ci sentiamo inondati da benefici che non si potrebbero immaginare, se non facendone esperienza diretta. La grazia di Dio, comunque intesa, continua a riversarsi su di noi con flusso ininterrotto, come se qualcuno lassù (forse quel burlone dello Spirito Santo) avesse dimenticato il rubinetto aperto. Ci sentiamo inzuppati di privilegi, uno dei quali, fra pochi giorni, sarà proprio quello di celebrare il sessantesimo anniversario di una promessa mantenuta. Non faremo una festa come abbiamo organizzato dieci anni or sono, per i cinquant’anni, perché abbiamo scelto la semplicità (anche perché costretti dal fatto che ora ci stanchiamo assai più di un tempo), così ci coinvolgeremo con i presenti in una celebrazione del tempo ordinario senza nulla di speciale, salvo l’esserci. Se l’occasione susciterà in me qualche riflessione particolare lo vedrò dopo, mentre per adesso mi godo l’attesa, ripensando al già fatto.

Il presente intanto non è banale, perché l’ingresso nell’età delle rottamazioni offre non pochi motivi d’interesse. Non aspiriamo affatto al monopolio degli acciacchi, però giunti a questo punto non siamo più neppure dei dilettanti. Per esempio, sia la mia sposa che io siamo dei morti di sonno, nel senso che in ogni momento appisolarci è talmente facile da costituire la regola. La differenza però e che da parte mia, oltre al giorno, tenderei a dormire profondamente anche tutta la notte, mentre lei di giorno finisce per dormire spesso, mentre da tempo ha dato il via a quelle che si potrebbero definire: le notti brave. Si addormenta subito ma si sveglia spessissimo, e si deve alzare perché dice che “le friggono le gambe”. Una sera ha provato a prendere un leggero sonnifero e quella notte, dopo un certo tempo, mi sono svegliato per via di qualche cosa che mi toccava la faccia, e non mi è stato facile capire che erano le carezze di un suo piede. Allora ho acceso la luce di slancio e l’ho vista coricata con la testa dall’altra parte, quasi penzolante fuori dal letto. Al tentativo di svegliarla sembrava voler opporre resistenze a oltranza, finché si decise a dire che doveva andare in bagno. Naturalmente l’ho dovuta sostenere perché camminava come un’ubriaca, battendo contro i muri del corridoio di qua e di là. Poi ha vomitato ed è stata meglio, ma è riuscita a dormire a spizzichi, con altri risvegli improvvisi che mi hanno costretto a riacchiapparla al volo ogni volta, per non lasciarla stramazzare per terra. 

Tutte le notti si sveglia numerose volte, ma ormai ha imparato ad assestarsi abbastanza e riesce a muoversi per casa in modo non troppo preoccupante. Dopo molte discussioni, talvolta concitate, si è convinta che è meglio lasciare le porte aperte e la luce accesa, così posso continuare a dormire con un occhio anziché dovermi alzare spesso per vedere dove è andata a finire. Qualche tempo dopo un’amica le ha consigliato un altro sonnifero a gocce, e quindi dosabile. Così una sera ha provato a prendere la dose minima: il piede in faccia non me lo ha messo, ma neppure quella volta si trattenuta di calarsi nei panni di una drogata, mostrando di sbarellare nei suoi movimenti al punto da costringermi ad alzarmi ogni volta, appena accendeva la luce. E inoltre, in più, quella volta è rimasta sciroccata per tutto il giorno fino alla sera quando, cessato l’effetto sonnifero, è finalmente tornata a una notte normale (si fa per dire), sempre costellata dallo stesso numero di risvegli, ma con un minimo di consapevolezza, ogni volta, di essere sveglia. Le nostre notti brave continuano con varia intensità.

Una delle conseguenze più interessanti della complicità prolungata è il linguaggio, che si personalizza basandosi sovente su episodi simbolo, col risultato di trasformarsi poi in gustose ripetizioni permanenti. Ad esempio, alcuni anni fa un bambino ammalato, al quale la mia sposa faceva assistenza, guardandola intensamente le aveva ripetuto più volte: sei rotta, sei rotta. Lei non ci mise poco a capire che intendeva riferirsi alle abbondanti rughe, e siccome l’idea le era piaciuta ne abbiamo riso insieme più volte. Così ci capita sempre più spesso di scherzare e divertirci con le nostre rotture (le scatole non c’entrano). Per il momento comunque, per quanto rotti e acciaccati,  subiamo solo limitazioni marginali che non ci impediscono di continuare la nostra vita a tutto campo, soprattutto nel nostro rapporto d’amore, accessori compresi. Non potremmo negare che ci divertiamo proprio a essere sposati.

Intanto, nella monotonia del sempre uguale, mi accorgo che si sta insinuando qualcosa di nuovo. Non ho ancora imparato a morire, ma si potrebbe dire che questo studio mi stia “sgusciando” dall’involucro. Per esempio, ho invitato me stesso a fare un sondaggio sui miei multiformi interessi, e ho rilevato che sono tutti in calo di consenso (quasi fossero dei partiti politici), tranne però uno. E sebbene superfluo, a scanso d’equivoci ripeto che si tratta proprio del rapporto coniugale, che sta diventando sempre più intenso (non pretendo di essere creduto). Forse quando si farà del tutto esclusivo mi basterà un passetto per diventare finalmente defunto (cioè compiuto).

Via via sto perdendo tutte le (altre) abitudini, e la monotonia del quotidiano passa sempre più rapidamente da un non far niente a un altro. Talvolta, per esempio, mi sembra di essere ancora legato alla libidine del computer: la prima cosa, al mattino quando mi alzo, è accenderlo per vedere se ci sono nuovi messaggi e-mail. E anche quando esco, durante il giorno, appena rientro in casa lo accendo subito, come se leggere la posta un po' più tardi fosse sconveniente. Ma si tratta di un riflesso condizionato al quale lascio spazio per benevolenza verso antichi vizi, anche se ammetto di derogare sempre più frequentemente.

Con l’evolversi di questa monotonia del non far niente mi viene sempre più spesso in mente il ricordo della monotonia lavorativa che mi accompagnava in passato. Oggi mi sembra assurdo pensare che un tempo passavo regolarmente dodici ore al giorno a fare pacchi, e con ritmo frenetico. Eppure direi che non mi sentivo meno felice. Però, a voler essere pignoli non saprei dire se è proprio vero, salvo che i linguisti non mi consentano di dire che oggi mi sento ancor più altrettanto felice.

I sessant’anni  di nozze mi appaiono come il crinale che spartisce un prima e un dopo, e il di più del presente deriva dal fatto che le nostre vecchiezze si sono così bene integrate da rendere evidente che a questo punto il nostro amore esuberante non avrebbe possibilità di esistere senza di loro. La nostra reciproca attrattiva a 360 gradi è sempre stata ricca e vitale, ma forse un tempo subiva più condizionamenti, mentre oggi, da vecchi, continua non meno intensa, mentre la nostra intimità si carica abitualmente di un profumo erotico che sa godere di se stesso, indipendentemente da secondi fini. L’esperienza mi ha convinto che l’estasi coniugale, se coltivata a dovere, si mantiene viva al di là d’ogni confine. E anche di ogni anniversario.

25. Danze e duelli

Le ipocrisie sono sempre in agguato, e immagino che dentro di me, probabilmente, ce ne saranno di subdole. Dico probabilmente perché mentre ne identifico alcune temo di non saper riconoscere quelle più machiavelliche. Sul versante distacco, per esempio, non mi sento schiavo di quel che possiedo (salvo forse un poco, perché tra le persone normali presumo che nessuno riesca a esserne totalmente immune). E comunque mi azzarderei a sperare di non esserne schiavo in forma patologica. Però se l'interrogativo si sposta sul possesso delle idee, allora sento crescere l'incertezza.

Le difficoltà riguardano la comunicazione, un argomento così complesso e ambiguo da suscitare talvolta ilarità o sgomento, a seconda dei punti di vista. E tanto per prenderla alla larga, mi ritorna alla mente un episodio di qualche tempo fa, quando mi è capitato di assistere a una scena che definire surreale mi sembra riduttivo. Mi trovavo alla stazione ferroviaria davanti all'uscita di un sottopassaggio, e accanto a me c'era un bambino di sette/otto anni con il suo papà. A un tratto, in fondo al sottopassaggio è spuntata la mamma, e il bambino avrebbe voluto scendere le scale per correrle incontro, ma il papà glielo ha impedito. Il bimbo allora, dopo aver tentato inutilmente d'insistere, è scoppiato a piangere, e quando la madre è arrivata in cima alle scale lo ha subito sgridato in maniera sprezzante dicendogli: «credevo che fossi contento di rivedere la mamma e invece ti trovo a piangere? Vergognati!». Il bimbo è ovviamente rimasto senza parole, ma neppure il padre ha aperto bocca. E per quanto mi riguarda, ho avvertito un tale sbalordimento da uniformarmi passivamente al coro silenzioso. E tutto sommato penso d'aver fatto bene, perché altrimenti avrei finito per dire qualcosa di sgradevole.

L'episodio mi torna alla mente con una certa frequenza: quante incomprensioni, quanti equivoci, quante ambiguità! Quanti slanci frenati e quanti pianti sprecati! Ma se i qui pro quo sono frequenti nelle percezioni soggettive, sovente anche le spiegazioni razionali finiscono per alimentare la confusione, perché il linguaggio verbale è ambiguo per sua natura, tanto da contenere in sé più significati anche contraddittori. Capirsi è tra le cose più difficili del mondo, tanto è vero che persone di pari cultura, sensibilità, ambiente e abitudini, parlando finiscono sovente per polemizzare e litigare, e quando si moderano è soprattutto per l'influenza favorevole di elementi irrazionali, come simpatia e affetto. Inoltre, ai linguaggi ambigui e alle parole usate con significati multipli, senza la preoccupazione di accertare come le intendono gli altri, si aggiunge un ambiente sociale che educa a rapporti conflittuali, nel quale difendersi e aggredire diventa regola di comportamento. Non bisogna farsi mettere i piedi sul collo, diamine! I contenuti contano poco, prevalere è più importante di qualsiasi argomentazione, e così la conversazione si svolge come un duello nel quale è primario sparare tutte le cartucce possibili. Lo scopo è sovrastare e non convincere o convincersi (vincere insieme). Per questo, di fatto, nessuno dei duellanti è disposto a mutare parere, né si aspetta che lo muti il suo avversario. Perché quando si gestiscono le proprie opinioni come un possesso, mutarle viene percepito come una perdita, come una sconfitta. (Cosa che vale anche nel rapporto con se stesso).

Conversare in termini di ragioni e torti è l'atteggiamento più facile, e quindi più istintivo, ma con risultato inevitabilmente conflittuale, mentre direi che il clima si faccia costruttivo soltanto quando l'interesse a comprendere l'altro prevale sulla pretesa di aver ragione, e capisco che un tipo di colloquio capace di arricchire entrambi possa nascere solo quando la voglia d'imparare è più forte del desiderio di fare belle figura. È allora, mi dico, che non conteranno più ragioni o torti, e neppure saperne di più o di meno, perché tutto sarà visto e vissuto come patrimonio comune dal quale si può attingere per aprirsi a dimensioni più ampie. Ecco le premesse indispensabili per passare dal duello alla danza, dove i ballerini ruotano assieme attorno a un punto comune (mentre porsi l'uno contro l'altro impedisce l'armonia danzante). Capisco che solo a questo punto svanirà la voglia di prevalere, lasciando spazio a scoperte che non si possono comunicare a parole, ma solo sperimentare di persona. Quali? Chi ama i paradossi potrebbe rispondere: se lo sai te lo dico, ma se non lo sai è inutile che te ne parli, perché non potresti capire.

Non so quanto abbia già imparato dai miei attuali studi, fatto sta che la conversazione salottiera, intrecciata com'è di banalità, non m'interessa più. Cerco di rispondere educatamente, quando è il caso, ma sovente lascerei cadere il discorso. Converso invece molto volentieri con chi è interessato a esplorare nuove dimensioni, ma devo aggiungere che, quando ce n'è occasione, finisco poi sovente per ritrovarmi deluso, in particolare quando mi sento rispondere con dei luoghi comuni triti e ritriti, ben noti a tutti. Quel che più stupisce è proprio sentirli proporre con insistenza come se fossero novità geniali, come se l'interlocutore si meravigliasse che le sue banalità non vengano accolte con entusiasmo. E tuttavia capisco che se non le ascoltassi correrei il rischio di perdermi anche il nuovo, quando affiora. Un po' come fanno i cercatori d'oro, che se disprezzano e buttano la sabbia anziché filtrarla a dovere, rischiano di perdersi anche il metallo pregiato senza neppure accorgersene.

A parte il turismo salottiero, la conversazione naturale dovrebbe svolgersi per comunicare e per apprendere, ma quando prevale invece la voglia di affermare o contestare allora l'incomprensione è certa. Talvolta mi sorge il sospetto che tutto nasca dalla tendenza a difendersi da interrogativi inquietanti, e mi sembra comunque scarsa la capacità di messa a fuoco su dimensioni che travalicano i paraocchi dei luoghi comuni. Quante occasioni sprecate!

Se è difficile restare in argomento e discutere nel merito, è perché sarebbe necessaria una buona capacità di mettersi nei panni degli altri e capire i loro punti di vista, mentre affermare il proprio è più semplice, e per molti più soddisfacente. Ricordo un'interessantissima conversazione con il celebre psichiatra Matté Blanco che dava per accertato che abitualmente, di fronte a un qualsiasi quesito, gli interlocutori rispondono spostando la messa a fuoco rispetto all'argomento originale. Come dire che quasi sempre le risposte sono fuori tema, favorendo l'accumularsi di equivoci. Del resto basta vedere qualche talk show televisivo, soprattutto con la partecipazione di politici, per rendersene conto!

Se mi soffermo sulle incomprensioni da persona a persona è perché temo che gli stessi meccanismi difensivi emergano anche nel rapporto con me stesso. Quanto sono impegnato a ingannarmi? Spero di non farmi illusioni nel dire che ora, con questo studio, le cose stanno cambiando. Il trascorrere del tempo, così spietato e inesorabile, lo sento sempre più legato al compiersi della mia vita. Ad esempio, come in ogni estate siamo da qualche giorno a Sanremo, nella casa di famiglia, sul nostro meraviglioso balcone in vistavision che si potrebbe dire il punto d'arrivo del nostro viaggio (quello da Roma, intendo). Un viaggio che, questa volta, ho vissuto come una metafora, sezionandolo idealmente a porzioni. Partenza e via: a Orte il dieci per cento è fatto, a Chianciano il venti, ad Arezzo un terzo, a Montecatini la metà. Durante il percorso lo spazio e il tempo dialogano fra loro e ogni luogo suggerisce un ricordo, o un pensiero. E poi Lucca, Carrara, la Spezia. Le cinque terre non si vedono ma sapere che ci sono è già un'emozione. Non me ne importa nulla di arrivare un po' prima o un po' dopo, però ogni tappa la vivo come un traguardo raggiunto e superato (sarà forse una mentalità persistente, che mi porto dietro da quando facevo gare in automobile). A Genova siamo all'80 per cento: quasi quasi un po' mi dispiace, tanto che avrei voglia di rallentare. Mi domando se è il tempo a stenderci lo spazio davanti come fosse un tappeto, o viceversa lo spazio a consumare il tempo.

Il bello è che questa metafora spazio/tempo mi si ripresenta spesso in varie forme. Per esempio, quando mi faccio la barba col rasoio elettrico: comincio sempre dalla guancia destra, poi tra lo spigolo della mandibola e il collo una serie di variazioni come sulle strade di montagna, che sembrano andare avanti e indietro. Poco diverso è l'andamento tra mento e baffi, e infine (finalmente!) la guancia sinistra che fa da dirittura d'arrivo, correndo anche il rischio di essere trattata in fretta, come tutti i finali. Ma devo aggiungere che da qualche tempo le cose stanno cambiando: certe mattine rinuncio a farmi la barba e forse nessuno se ne accorge.

Un qualsiasi viaggio, una volta terminato, appartiene al passato. Però tra la partenza da Roma e l'arrivo a Sanremo (come pure tra l'inizio e la fine di ogni barba fatta) il tempo è trascorso realmente, con relativa proiezione verso la fine. Che sia di sette ore in un caso e cinque minuti nell'altro non ha alcuna importanza. Quel che conta, mi chiedo, è quale traguardo mi si sta approssimando: quale fine? Di quale tipo? Semplicemente morto, oppure (speriamo) defunto?

Intanto ho imparato che qualunque cosa può insegnarmi qualcosa. Anche il computer, strumento emblematico del tempo presente, che mi appare una buona metafora della vita. Quando eseguo un download o qualche altra scansione di aggiornamento, la striscia di acquisizione talvolta corre con la velocità del lampo, ma altre volte si ferma a lungo facendo sorgere il dubbio che il tutto si sia bloccato. Ma prima o poi, in un modo o nell'altro, il blocco si risolverà, fosse pure attraverso qualche moderno taglio del nodo gordiano. Anche nei lunghi anni passati ho vissuto momenti simili, ma ora so che le soste sono solo apparenza, perché il tempo non si trattiene mai di trascorrere inesorabilmente.

In sostanza, vorrei saper rinunciare a ogni formalismo per guardare, appunto, alla sostanza. Sarà possibile? Ci tornerò sopra, ma intanto sento che qualcosa sta cambiando, anche se mi verrebbe da aggiungere che non è poi così facile imparare. E non soltanto a morire, ma anche a capire se stessi, nei propri meccanismi più intimi.


26. Road map per un traguardo

Da circa un anno sto studiando per imparare a morire, che è come dire per liberarmi dai possessi materiali e mentali (per quel che sarà possibile). Mi domando quanta strada ho fatto, perché talvolta mi sembra di stare sempre allo stesso punto. Altre volte invece il punto di partenza lo vedo laggiù, lontano, un po' come in montagna quando si sale verso la vetta: per molto tempo il sentiero sembra riproporsi sempre uguale, specialmente quando si cammina nei boschi, ma ogni tanto si percepisce improvvisamente la distanza dalla partenza, e anche dalle diverse fasi del percorso. Finora mi sono mosso a zig zag affrontando gli argomenti a mano a mano che li vedevo emergere, tra pensieri e ricordi, ma ora mi accorgo che qualcosa sta cambiando. Un po' come quando, in montagna, termina la zona boscosa e restano rocce e sterpaglie, preludio dello strappo finale. Non mi riferisco alla mia vita, che non so quanto tempo saprà riservarmi ancora, ma ai miei studi per apprenderne il senso, che sento necessario indirizzare verso una conclusione, fosse pure temporanea.

Se continuassi così, mi dico, immagino che avrrei sempre nuovi stimoli e potrei proseguire le mie riflessioni all'infinito, e forse anche con temi interessanti e significativi (non posso escluderlo). Tuttavia uno studio deve prima o poi giungere a una conclusione, altrimenti rischia di rarefarsi in sterili dispersioni, come il delta di un fiume che sbocca in un deserto, anziché nel mare. Così ho deciso di tracciare una sommaria road map che dovrebbe accompagnarmi da qui a non so quando, ma con un finale di studio previsto.

Gli argomenti che vorrei ancora affrontare sono di due tipi: gli uni di carattere generale che investono l'umanità intera, e quindi mi toccano perché interessano tutti; gli altri riferiti invece a quel che mi riguarda in modo diretto, e quindi personalizzati su di me. Tra i primi vi è la salute del pianeta con tutte le modificazioni sociali che comporta, tema che al giorno d'oggi credo non sia più possibile affrontare positivamente senza una rielaborazione generale teologico/filosofica che sappia uscire dai ristretti criteri terreni per ricuperare significati d'insieme, altrimenti incomprensibili. Tra i secondi c'è la ricerca e il tentativo di comunicare, anche con me stesso, attraverso linguaggi che sappiano superare i limiti razionali (per quanto possibile), nella speranza d'intuire almeno qualcosa sul senso dell'oltre. Infine, per riuscire a concludere questo studio, so che dovrò fare i conti fino in fondo con l'individuo che porta il mio nome. Che sarebbe come dire, in altre parole, riuscire a liberarmi dai lacci dell'antropomorfismo.

Nei limiti che avvolgono la nostra realtà terrena tutto è destinato a passare, non solo ogni esperienza di vita personale ma anche quella dell'intero pianeta, che dovrà giungere un giorno alla sua fine. Ma la differenza tra i singoli individui e il complesso globale sta nel fatto che ciascuno di noi vive e percorre tutti interi gli anni della propria parabola, mentre il collettivo che compone l'umanità ha davanti a sé una proiezione del tempo che oggi appare al di là dell'orizzonte comune, col risultato di venir percepita come qualcosa da non prendere in seria considerazione (è facile convincersi, con un po' di vigliaccheria, che il problema riguarderà i posteri e non noi). Per questo, se da un lato credo importante imparare personalmente a morire, dall'altro mi sembra che tutti dovrebbero preoccuparsi, come minimo, di mantenere almeno vivibile l'ambiente di vita. Ma l' argomento, ahimè, non sembra suscitare sufficiente attenzione a giudicare soprattutto dall'atteggiamento di governanti e politicanti che preferiscono passare il loro tempo a discutere su colpe o meriti dell'uno o l'altro, cioè di loro stessi.

Da parecchi decenni ormai il progresso della scienza e della medicina hanno aperto straordinarie prospettive, che però si sono portate dietro anche delle tare ineliminabili, come l'aumento esponenziale della popolazione e dell'inquinamento, oltre al massiccio consumo delle risorse e delle terre coltivabili. Ricordo quando è uscito, quarant'anni or sono, il primo studio organico sulla salute del pianeta dal titolo: I limiti dello sviluppo, elaborato dal MIT (Massachusetts Institute of Technology) per conto del Club di Roma. Lo studio, prendendo in esame diversi parametri, come ad esempio inquinamento, aumento della popolazione, consumo delle materie prime, delle terre coltivabili e altro, concludeva che se non vi fosse stata un'immediata e decisa inversione di tendenza, per semplice forza d'inerzia intorno al 2050 si sarebbe verificata una catastrofe inarrestabile. Negli anni successivi numerosi altri studi si sono avvicendati, e da allora regolarmente, si potrebbe dire, escono di tanto in tanto su giornali e televisioni delle inchieste dalle previsioni drammatiche, e quel che più stupisce è veder ripetere l'anno 2050 come approssimativo momento di una decadenza irreversibile. I parametri nel frattempo sono cambiati e alcuni di quelli iniziali sono stati contestati e sostituiti da altri più attendibili, ma stranamente la previsione catastrofica è rimasta ferma alla stessa data. Con la sola differenza che degli 80 anni a disposizione, secondo la prima previsione, 40 ne sono già passati, e nulla di serio è stato fatto per frenare il degrado.

La situazione appare allarmante: altro è la previsione remota di una fine del pianeta per evoluzione naturale, che si proietta lontanissima, altro è la sola ipotesi di una svolta degenerativa irreversibile provocata da insensatezza umana, che potrebbe avvenire in un tempo talmente prossimo da potersi dire domani, o al massimo dopodomani. Ricordo che quando avevo vent'anni il futuro era percepito come una promessa, mentre oggi appare sempre più una minaccia.

Più volte mi è capitato di sentir dire, parlandone, che l'essere umano ha sempre risolto i problemi incontrati nel corso della sua storia, molti dei quali altrettanto drammatici di quelli attuali, e quindi finirà per risolvere in qualche modo anche questi. Ma c'è una differenza di qualità, però: nel passato simili problemi erano solitamente relativi e circoscritti nelle varie zone (ad esempio se c'erano problemi di aumento della popolazione, e quindi la necessità di aumentare le risorse alimentari, bastava spostarsi nelle numerose terre vergini a disposizione) mentre oggi che la globalizzazione investe l'intero pianeta gli stessi problemi hanno assunto dimensioni di valore assoluto e senza precedenti. La situazione è così intrecciata che la modifica dell'uno o l'altro parametro non cambia le previsioni negative d'insieme. Per riuscirci bisognerebbe rinunciare di colpo, in modo drastico, a gran parte del consumismo cui siamo abituati. Tra l'altro, ai disastri ecologici si aggiunge il crescere costante dei flussi migratori che stanno sempre più sconvolgendo gli equilibri dei tradizionali paesi benestanti. Ma è inutile attardarsi oltre su dettagli fin troppo ben conosciuti.

Non sono un catastrofista, non potrei esserlo neppure volendo, perché da tempo sento la speranza tenermi per mano senza alcuna intenzione di volermi lasciare. Ho fiducia quindi che tutti questi problemi potranno in qualche modo essere risolvibili. Ma come? E a che prezzo? Non c'è bisogno di essere indovini per immaginare che il futuro sarà duro e difficile, perché la globalizzazione si sta consolidando sempre più e ormai non potrà più rientrare se non a costi traumatici. L'umanità si trova di fronte a una svolta epocale, e quel che preoccupa è lo scarso impegno a preparasi a dovere, quasi il problema riguardasse altri. Dove andremo a finire? Qualche spiritoso dice che ormai ci siamo già finiti, e mi sovviene sempre più spesso quel celebre aforisma che dice: non temo la fine del mondo, temo che continui così com'è.

Pur immerso nella mia irrinunciabile speranza e nel mio inossidabile ottimismo, talvolta mi sembra che ci sarebbe da disperarsi, e confesso che avverto affiorare la tentazione di lasciare che i miei timori si acquietino al pensiero che fra qualche anno non ci sarò più. Ma può essere una consolazione, mi dico? Personalmente so che è prossima la fine del mio mondo, e quindi non ho bisogno di ipotizzarne una oggettiva, ma non riesco a dire che non me ne importa nulla, intanto perché i miei amati nipoti e bisnipoti sono destinati ad attraversare in pieno i previsti drammatici momenti di svolta, e dato che affettivamente li percepisco come un prolungamento di me stesso non potrei estraniarmi da quel che mi riguarda. E poi perché mi sento parte e partecipe dell'umanità intera, anche di quelli che non conosco, e non potrei mai rassegnarmi passivamente al peggio senza imparare a dare un senso alla vita, e non solo alla pura sopravvivenza. Insomma, se istintivamente aspirerei a non essere avvolto da problemi così invadenti, non riesco proprio a dire che non me ne importa nulla solo perché personalmente fra qualche tempo non ci sarò più.

Il viaggio dell'intero pianeta mi sembra così strettamente legato al senso di tutta la realtà da richiedere una radicale rivisitazione dei concetti e delle immagini filosofiche e teologiche tradizionali. Mi verrebbe da chiedere: Oh Dio enigmatico e misterioso, dove ti sei cacciato? Sei sempre stato nascosto, ma ora non esagerare! Direi però che per capirne il senso e ritrovarlo in forme credibili sia tempo ormai di uscire da ogni visione dualistica della realtà, che tende a dividere perché contrappone velleitariamente ragioni e torti, giusto e sbagliato, bene e male. Temo non vi saranno prospettive per il futuro, se non nella percezione, finalmente, di un unicum sacroprofano che sia capace di superare ogni concezione manichea per svelare il senso della realtà d'insieme, e puntare concretamente sul bene comune di tutti e di tutte le cose

Se mi domando quanto sono attaccato a questo pianeta, a questo mio ambiente di vita, penso che distaccarmene, quando si renderà necessario, non mi sarà poi così difficile, anche perché so che tanto dovrò farlo per forza. Ma il mio essere, il mio io? Qui non saprei ancora che cosa rispondere: per il momento capisco solo che devo continuare a meditarci su. Nel frattempo non mi resta che proseguire con la road map.


27. Mi capisco o m'inganno?

Per capire quanto sono attaccato a me stesso, alle mie opinioni, alle mie velleità, ho bisogno di rendermi conto fino a che punto capisco gli altri, e quanto sono da loro capito. Più volte ho già accennato all'argomento ma le incomprensioni sono così abbondanti che mi sento pieno d'interrogativi, talora scoraggianti. Il linguaggio umano è intriso di ambiguità perché inevitabilmente costretto a criteri antropomorfici, contraddittori per natura. Quindi, se da un lato non posso che servirmi degli unici mezzi che ho a disposizione, dall'altro lato, per capire me stesso, dovrò imparare a utilizzarli in forma simbolica, dovrò imparare a scovare i significati sottintesi, in particolare per quel che riguarda il senso della realtà d'insieme. O se si preferisce, per quel che si chiama Dio, qualunque cosa si voglia intendere con questa parola.

Nel vangelo, la celebre frase: non sanno quello che fanno, è riferita a fatti particolarmente drammatici e negativi, ma il suo significato vale a tutti i livelli. E allora? Fino a che punto non so quello che faccio? Oggi sembra molto di moda l'equazione: non sapevo, quindi sono innocente. Ma è proprio vero? E poi, se "non so", è colpa di altri o sono io che non m'informo, che non voglio sapere? O, peggio, che faccio finta di non sapere, perché mi fa comodo? Di fronte all'ammonimento evangelico non mi importa nulla di rivendicare la buona fede, e quindi una qualche giustificazione. Mi proporrei invece di non contribuire in alcun modo a "mettere Cristo in croce", neppure indirettamente. Ma come posso sapere e capire quello che faccio se comunico in modo ambiguo? Talvolta mi viene il sospetto di essere proprio "fatto male", soprattutto nel modo di rivolgermi agli altri, perché spessissimo intenderei esprimere qualcosa, ma poi mi accorgo che all'interlocutore arriva dell'altro. Per fare un esempio, qualche tempo fa una mia amica mi ha detto con tono d'assoluta certezza che lo zucchero raffinato fa malissimo, aggiungendo che lo dicono tutti. Più tardi, dopo una breve ricerca su internet, ho scoperto che vi sono invece anche pareri contrari, e c'è chi sostiene che non è affatto vero che fa male, ma che si tratterebbe di una delle tante leggende senza basi scientifiche. Personalmente, su tale problema mi sento neutrale e incompetente, ma mi è sembrato interessante notare che non è vero che lo dicono tutti. Così ho stampato il parere e l'ho fatto leggere alla mia amica. Risultato: io sostengo che lo zucchero raffinato fa benissimo. Che dire? Da parte mia credevo di aver espresso perplessità per i "si dice", perché so per esperienza che c'è sempre qualcuno pronto a dire il contrario. Invece sono stato recepito come strenuo e prepotente difensore dello zucchero.

Per fare un altro esempio legato a questo mio lavoro, nel capitolo precedente ho accennato a inquietanti problemi sulla salute del pianeta, riportando per lo più opinioni altrui. Personalmente mi sento incapace di capire quanto siano giustificate le previsioni pessimistiche, ma trovo inquietante il solo fatto che qualcuno ne parli come di possibilità reali. E tuttavia, malgrado abbia sottolineato esplicitamente di aver fiducia che questi problemi possano essere in qualche modo risolvibili (anche se non sarà né facile né indolore) qualcuno mi ha risposto dandomi del catastrofista. È proprio vero che non sai mai quello che dici finché non lo senti ripetere dagli altri.

Sia il vostro parlare sì, sì, no, no, il di più viene dal maligno, dice il vangelo. Da chiunque venga il "di più", a me piacerebbe che non esistessero dietrologie, che la comunicazione fosse limpida e diretta, anziché contorta e soggetta a interpretazioni arbitrarie. Ma bisognerebbe essere liberi dalle "certezze" (cioè dai possessi mentali) e imparare a gestire con più benevolenza le perplessità. Perché è ovvio che cambiare idea quando la si considera certezza venga percepito come una perdita. E in tal caso è altrettanto ovvio che affermare la propria opinione diventi prevalente, anche in forma ossessiva, rispetto all'ascoltare quelle altrui (ne abbiamo esempi a iosa nei talk show televisivi, dove la regola è parlarsi sopra). Confesso che anche a me capita qualche volta di cascarci, probabilmente per istinto dovuto alla nostra struttura individualistica, ma quando mi fermo a riflettere, o a stimolare altri a farlo, capisco quanto sia un atteggiamento sciocco. In fondo, penso, chi parla dovrebbe aspirare a dire delle cose interessanti per chi ascolta, e tacere invece quel che non interessa. E invece sovente si considera primario dire la propria opinione anche quando è evidente che l'interlocutore (o l'avversario?) non vuole ascoltare. «Non m'interrompere, lasciami finire» sono espressioni comunissime ripetute nel momento in cui l'altro, di fatto, sta dicendo che non ha più senso continuare così.

Sovente l'ascoltatore identifica un punto chiave sul quale sarebbe fondamentale soffermarsi, ma se deve attendere la fine dell'esposizione finisce per divagarsi e volgere altrove l'attenzione. Altrettanto spesso, nell'esporre la propria tesi, si da per scontato  che ci sia convergenza su certi punti di riferimento, quando magari non c'è accordo per niente. Ma se chi sta ascoltando tenta di intervenire per mettere a fuoco qualcosa ecco il classico: «non m'interrompere, lasciami finire». Ma come può essere proficuo proseguire un discorso se non c'è accordo sulle premesse? Così ciascuno dice il suo senza confrontarlo con l'altrui e senza voler ascoltare eventuali interferenze, insinuando il sospetto che la conclusione più gradita, alla fine, sia quella di restare delle proprie opinioni.

Personalmente credo che sarebbe possibile educarsi ad altre forme di colloquio. Tra i miei studi incompiuti per programmare l'Accademia del Buon Litigio c'è un metodo per promuovere conversazioni costruttive, costringendo a restare in argomento pena, altrimenti, l'impossibilità di proseguire. Premettendo che due sono gli atteggiamenti chiave per arricchire il dialogo in modo proficuo e serrato: il primo, da parte di chi si sta esprimendo, è la disponibilità a lasciarsi interrompere; e il secondo, da parte di chi ascolta, è l'attenzione a fare solo interruzioni brevissime per arricchire l'esposizione, e non per contrapporre tesi proprie (cosa da rimandare a momenti successivi). Il metodo consiste nel rispetto di una semplice regoletta: colui che parla, se l'altro alza la mano è tenuto a tacere e ascoltare l'interruzione, ma ha diritto a sua volta di alzare la mano e zittire l'altro. Così, se entrambi tengono la mano alzata resterà solo il silenzio. Il risultato? A guidare il dialogo non sarà più la pretesa di voler dire a tutti i costi il proprio pensiero, ma il desiderio e la disponibilità ad ascoltare quello altrui. Se poi a nessuno dei due interessa, meglio che il dialogo non ci sia.

Il rispetto di questa regola elementare può produrre grandi benefici: provare per credere. Intanto impedisce di parlarsi sopra, e poi stimola a essere rapidi e stringati per cercare di non essere interrotti, educando a ridurre le divagazioni inutili. Applicata a dovere stimola il dialogo su quel che è interessante e lo chiude quando diventa noioso e non gradito. Negli anni fiorenti della Comunità del Mattino, durante le nostre effervescenti riunioni usavamo una variante piuttosto efficace: quando qualcuno si trovava in disaccordo con l'esposizione in corso e pensava necessario proporre delle precisazioni, anziché interrompere mostrava un cartellino giallo. Così chi aveva la parola poteva scegliere se proseguire o chiedere chiarimenti. Nel caso poi di decisi disaccordi si poteva usare un cartellino rosso per indicare che non aveva proprio alcun senso continuare senza fermarsi per un confronto. Se si considera che nell'esprimere i propri pensieri, di solito, non si sa che cosa pensano gli ascoltatori, e nemmeno se sono d'accordo o in disaccordo, dovrebbe apparir chiaro quale sia il vantaggio di usare simili strumenti. Naturalmente, una volta assimilato il concetto, e quindi sottolineata l'importanza dell'attenzione e dell'ascolto, si può condurre la conversazione in modo sostanzialmente simile anche senza usare l'artificio di cartellini o mani alzate. Ma in ogni caso, per rendere proficuo il colloquio, è importantissimo sia lasciarsi interrompere, sia saper fare solo brevi interruzioni di arricchimento.

Invece si potrebbe dire che l'atteggiamento più comune sia quello di affermare e sostenere le proprie opinioni come se fossero certezze, anche quando la fonte di provenienza non lo garantisce affatto. In concreto, dare per certo qualcosa che si conosce solo approssimativamente, o per sentito dire, o senza sufficienti accertamenti, o meglio dire qualcosa che non si sa come se la si sapesse, equivale di fatto a mentire. In tali casi la comunicazione corretta sarebbe: l'ho sentito dire, l'ho letto sui giornali, l'ho ascoltato alla TV, mentre è scorretto e imprudente sostenere: è così e così, come se fosse qualcosa di accertato. Eppure si può dire che sia questa l'abitudine. Per smontare gli equivoci basterebbe informarsi sulla fonte, basterebbe chiedere all'interlocutore: quel che stai dicendo, lo sai o te l'hanno detto? Quale sia l'attendibilità dei si dice, o di quanto scrivono i giornali, o di quanto circola nei canali mediatici, è ben nota a tutti. Per questo è una menzogna dare per certo quel che certo non è.

A me però non interessa fare un processo alle comuni abitudini, quanto chiedermi se la stessa cosa potrebbe accadere anche nella comunicazione tra me e me. Fino a che punto sono sincero? Non c'è il rischio di mentire a me stesso? L'idea, l'opinione, il concetto per cui talvolta mi batto a spada tratta, l'ho assimilato acriticamente da qualcuno che "me l'ha detto", oppure l'ho maturato nella mia coscienza con la dovuta attenzione? Non darò forse troppo retta a quel che ho sentito dire, cioè ai luoghi comuni? Posso fidarmi di me, della mia coscienza? Oppure tendo a lasciarmi (volentieri) ingannare?

In altre parole dovrò interrogarmi su quale tipo di fede mi confronto: razionale e antropomorfica, oppure simbolica e metaforica, e cioè capace di trascendere i linguaggi per mettere in evidenza i significati? Con questi abbondanti interrogativi non mi resta che proseguire sulla road map.


28. Un linguaggio sacramentale

Dare per scontate le proprie opinioni fino a considerarle certezze, trascurando il fatto che a volte sono soltanto luoghi comuni assimilati passivamente per pigrizia mentale, è un atteggiamento istintivo che spinge a credere nel più comodo. Perciò domando a me stesso con quale sincerità affronto le mie tesi, quando le circostanze m'invitano a riesaminarle. In qual modo m'interrogo? Quali risposte so dare ai quesiti che mi si affacciano nella coscienza? So che la comune educazione, di tipo conflittuale e ideologico, spinge facilmente a fare domande per cercare conferma alle proprie opinioni, piuttosto che per indagare e conoscere il nuovo.

È infatti assai difficile formulare domande innocenti, mentre sono molto più frequenti quelle retoriche con risposta preconfezionata. L'atteggiamento innocente consiste nel porsi senza pregiudizi davanti alla ricerca, con disponibilità a lasciarsi guidare, condizionare, modificare, modellare dalle risposte e dalle nuove scoperte. Questa credo sia vera umiltà. Nella parabola degli invitati a nozze, l'accusa di non indossare il vestito adatto non si riferisce ad abbigliamenti esteriori, perché l'abito nuziale evangelico è simbolo di castità, di atteggiamento libero da riserve mentali e doppiezze di cuore. L'ammonimento equivale a dire: come ti permetti d'indagare il divino per cercare conferma ai tuoi pregiudizi, o per farne un uso di comodo? Mi domando se nel riesaminare i cardini della mia fede so pormi domande innocenti, capaci di aprirmi la mente verso l'oltre. Non ne sono totalmente sicuro, perché temo a volte di strizzare l'occhio alla mia coscienza. Però vorrei imparare, questo sì. E senza sconti. Tenterò di farlo mentre proseguo questa road map verso un possibile traguardo.

Da tempo ho l'abitudine, quando capita, di soffermarmi volentieri a incrociare lo sguardo con bambini piccoli, anche sconosciuti, e talvolta mi trovo a vivere momenti di coinvolgimento intensissimo con qualcuno. Non so che cosa pensano, ma l'emozione non si trattiene dallo scatenarsi, di fronte al loro comunicare con sorrisi e trilli di gioia, oltre a rapidi movimenti di braccia e gambe. In tali occasioni l'atteggiamento innocente è scontato, mentre il "ragionare" cede il passo al "sentire". Analogamente, direi, anche lo sguardo della mia innamorata supera ogni ragionamento e mi fa sentire proiettato oltre i miei limiti fisici, pronto a penetrare nei suoi. L'amore percepito e vissuto è una dimostrazione lampante della tendenza al più grande di noi, del prepotente desiderio di evadere dai propri limiti ristretti per proiettarsi oltre.

Insomma, il comune linguaggio, parlato o scritto, è solo uno dei tanti. Altri ad esempio, come quello artistico, visivo o musicale che sia, non si propongono di trasmettere riflessioni razionali ma sensazioni capaci di toccare profondamente lo stato d'animo. Si tratta di un tipo di comunicazione che richiede l'integrazione fra proponente e ascoltatore, con andamento non unidirezionale, perché l'artista (poeta, pittore, musicista) mette nella sua opera solo una parte del messaggio, che viene rielaborato e integrato da chi lo riceve. Ma per ottenere validi risultati bisogna creare armonia, bisogna sintonizzarsi sulla stessa lunghezza d'onda, altrimenti resterebbero soltanto spazi d'incomprensione. La cosa vale ancor più per gli innamorati, che solo quando si trovano in piena sintonia riescono a comunicarsi l'un l'altro tutta la loro spumeggiante vitalità. Se invece uno comunicasse amore senza che l'altro lo recepisca e risponda adeguatamente, tutta la potenzialità del momento finirebbe ben presto per sgonfiarsi. Essere innamorati potrebbe definirsi un'opera d'arte con risposta obbligata.

Repetita iuvant, dicevano i nostri lontani antenati, ma è interessante notare come le ripetizioni producano effetti diversi. Nel linguaggio razionale, scritto ancor più che parlato, sono pesanti e noiose, mentre nell'arte (musica, pittura, poesia) sovente creano particolare atmosfera, anche quando vengono proposte in forma ossessiva. Non per nulla la parola monotono viene comunemente usata come sinonimo di noioso, mentre in musica il mono-tono è una modalità d'espressione, tanto è vero che il ripetersi di un motivo, anche di poche note, basta sovente da solo a sottolineare emozioni. Nell'amore poi, che si consuma e rivitalizza ciclicamente con ripetizioni continue, le monotonie possono essere sublimi e stimolanti perfino più delle novità. E non solo per quanto riguarda l'amore coniugale, ma anche per quello verso figli, genitori, nipoti, amici. Quante volte mi sono arrabbiato con l'uno o l'altro e avrei avuto voglia di sbatterli al muro; eppure, amandoli, non mi andrebbe per nulla di contrappormi dicendo: tu da una parte e io dall'altra. Al contrario vieni qua, ripeto senza stancarmi, e insieme riusciremo a trovare concordia. Che cosa sono il perdono, la benevolenza, il porgere l'altra guancia, la misericordia vissuta e messa in pratica, se non sprazzi visibili dell'armonia d'insieme? E questo vale anche nelle sensazioni relative al trascendente, perché, in fondo, la fede non è altro un rapporto d'amore a dimensione divina. Ma anche in questo caso, come in tutte le relazioni emotive, l'inganno è sempre lì, in agguato, pronto ad approfittare di ogni ambiguità che gli spalanca le porte.

Gli argomenti teorico razionali della fede, basati sul linguaggio antropomorfico, hanno valenza relativa, perché di fronte a formule e dottrine si fa presto a dire credo, ma poi fino a che punto è vero? Se mi riferisco al credere col mio cuore, con l'adesione concreta di tutto il mio modo di essere, sento crescere scoraggianti interrogativi: quanto posso fidarmi della mia mente e quanto invece sto mentendo a me stesso? In altre parole, quanto sono credibile? Per questo mi sembra necessario rivisitare il mio bagaglio di fede basandomi, per quanto possibile, su altre forme di comunicazione.

Nel mio intimo avverto un forte trasporto verso la realtà d'insieme, e oggi, dopo aver passato tutta la vita a riflettere, sono sempre più convinto che l'intera realtà sia da considerarsi un uniucum sacroprofano, non privo di contraddizioni, è vero, ma con la speranza che vengano tutte trascese e rimodellate in un ampio significato complessivo unitario. Le concezioni antropomorfiche e razionali, imbrigliate nei loro limiti, sono incapaci di andare al di là di un certo livello, perciò, per spaziare oltre, penso necessario utilizzare un altro tipo di linguaggio, che definirei sacramentale. Se il sacramento, infatti, è segno visibile di una realtà invisibile, mi sembra ovvio che qualsiasi nostra immagine o concetto non possa rappresentare direttamente quel che trascende i limiti, ma potrà essere un segno che rimanda all'incomprensibile: un sacramento, appunto.

Ad esempio, l'amore coniugale che mi è dato sperimentare (cosa che spero accada a molti) non è pensabile che possa esistere se non come partecipazione all'amore universale, che va ben oltre i limiti umani e terreni per indicare un valore assoluto. Confesso che da quando mi sono accorto che il piccolo/grande amore che vivo assieme alla mia sposa è sacramento dall'Amore con la A maiuscola, il salto di qualità è stato stupefacente, contribuendo in maniera decisiva alla crescita e all'espansione dei momenti d'estasi coniugale. E questo personalmente lo vivo come dimostrazione dell'esistenza di un legame d'insieme che va oltre i limiti e riveste d'un significato complessivo tutta l'esistenza. Quel che mi domando è quanto si può realmente capire di questo amore universale che si proietta su ogni cosa, legando unitariamente tutti in tutto.

Una cosa mi sembra indiscutibile: nulla può contenere qualcosa più grande di sé. L'antropomorfismo è confinato nei limiti umani quindi non può contenere il divino, e se è sempre stato molto comune l’uso della parola Dio, in realtà si tratta sempre di proiezioni nostre, della nostra psiche. A me piacciono i paradossi e può darsi che talvolta sia un po' visionario, ma non sono così ingenuo da credere di poter identificare e capire gli aspetti di un mondo che trascende comunque ogni mio limite concettuale. Se parlo di Dio so bene che in realtà parlo sempre di me e delle mie percezioni, ma mentre riconosco onestamente che non possiamo saperne nulla, non posso neppure escludere che le nostre proiezioni psicologiche possano anche contenere qualche verità. Mi chiedo perciò: come interrogarsi senza pregiudizi? L'antropomorfismo è già di per sé un nostro pregiudizio, mentre l'approccio sacramentale mi lascia sperare di poter intuire qualche sprazzo dell'incomprensibile.

Continuo a cercare di approfondirne il senso, ma intanto mi sembra significativo riflettere su quell'aspetto della razionalità che si chiama memoria, elemento indispensabile per esprimersi secondo logica. Tanto è vero che la perdita di memoria diventa un dramma, per le relazioni basate sulla comunicazione razionale, ma non impedisce di vivere intense emozioni attraverso altri linguaggi. Questo mi consola, ora che la vecchiaia si diverte sempre più spesso a immergermi in paurosi vuoti mentali, tanto che sovente non ricordo più i miei ricordi. E quasi a volermi sostenere mi tornano alla mente due esperienze vissute nella mia famiglia: due zii, molto diversi fra loro nel carattere e nell'atteggiamento, che a una certa età avevano perso entrambi la memoria. Ebbene, uno si disperava in modo ossessivo, l'altro diceva invece: ho perso la memoria, che bellezza, non ho più alcun problema! Il primo ha vissuto i suoi ultimi anni come un inferno, malgrado fosse accudito amorevolmente dalla moglie che, per aiutarlo, aveva imparato a ricordare tutto il possibile, e perfino qualcosa d'impossibile. L'altro ripeteva sempre le stesse cose, ma lo sapeva, ci rideva sopra, si guardava attorno con rinnovata curiosità e stupore, e ascoltava musica ogni volta come se fosse la prima volta. Forse aveva imparato a comunicare in forme sacramentali con quella dimensione di vita dove la razionalità non conta nulla.

Sono ricordi che mi aiutano moltissimo a guardarmi attorno per indagare il senso dell'esistenza, e quindi per imparare a morire. Perché se oggi non è più gran che di moda disquisire sulla cosiddetta metafisica, personalmente credo invece che sia tuttora un esercizio fondamentale per chi ama la ricerca, purché resti sempre viva e sveglia la coscienza di non poterne sapere nulla di oggettivo. O almeno, così è per me.


29. Il sacramento eucaristico

Qualcuno mi accusa di essere un po' spregiudicato nel parlare di fede, ma in quale senso? Se s'intende letteralmente libero da pre-giudizi, allora voglio provarci, è vero: vorrei riuscire a essere spregiudicato. Forse qualcuno si dispiacerà, ma credo che a difendere abitudini e luoghi comuni non ci si guadagna proprio nulla.

La religiosità abituale scivola facilmente nella sacralità, che per sua stessa natura teme prima di tutto il cosiddetto sacrilegio. Ma credo sia un problema legato alla miopia umana, perché si potrebbe credere seriamente a un Dio che si offende, in particolare per questioni formali legate a riti e liturgie? Come non credere invece che gli farà piacere soprattutto essere cercato? Da parte mia immagino che preferirà avere figli spregiudicati piuttosto che assenti. E comunque in ogni famiglia ci sono figli seri e ortodossi che seguono le buone regole tradizionali, e figli birichini un po' anarchici. A me è toccata la parte del figlio birichino, ma non mi preoccupo, perché se ho scelto di percorrere nuove strade è per desiderio di cercare e conoscere meglio quel Dio che è fonte della mia vita. Credo non se ne dispiacerà. D'altra parte ho chiara coscienza di non essere indipendente, perciò non ho proprio alcuna intenzione di mettermi in proprio, per conto mio, magari in contrapposizione a lui: la mia è sempre e comunque ricerca di collaborazione e coinvolgimento.

L'idea stessa di sacramento penso sia lo strumento privilegiato per tentare d'indagare l'inconoscibile, e mi pare scontato, per approfondirne il senso, dover iniziare da quello principale: l'eucarestia. Dico subito, in termini semplici e inequivocabili, che a me la messa piace, perché trovo che offre una grande opportunità d'imparare a evadere dai propri limiti ristretti. È vero che in molte chiese le celebrazioni sono scialbe e formali, con gesti stereotipati ripetuti meccanicamente, e con liturgie accompagnate da canti adatti a conciliare il sonno, e per di più sovente annunciati da un filo di voce cavernosa che sembra provenire dall'oltretomba. Per non parlare poi di certe omelie lunghe, banali e poco stimolanti che tendono a disperdere l'attenzione. E pur se non manca una minoranza di parrocchie e altri centri di culto che promuovono celebrazioni vive e creative, non si può tuttavia negare il permanere di molti elementi scoraggianti, tanto da far sorgere il sospetto che per qualcuno, forse, le celebrazioni siano gradite così, anche perché obbligare all'ascolto di cerimonie noiose fa parte dell'educazione alla sudditanza. Ci sarebbe da chiedersi quanto l'attuale crisi religiosa derivi dal fatto che è assai poco stimolante recarsi in chiesa, mentre le spinte centrifughe prevalgono su quelle attraenti.

Eppure confermo che a me la messa piace e vi partecipo volentieri per diversi motivi. A parte il valore sacramentale sul quale ciascuno pensa e crede quello che vuole, è per me un significativo momento di richiamo ai valori in cui credo, e quindi strumento di verifica della coerenza e della presa di coscienza. E inoltre, oltre a offrire istanti di raccoglimento liberi dal turbinio quotidiano, assume concretamente aspetti sacramentali rimandando, pur con tutti i limiti antropomorfici del rituale, al valore d'insieme. In particolare, poi, vi sono due momenti chiave, secondo la mia sensibilità. L'uno è lo scambio di pace fra i partecipanti, che pur se in molti casi è probabile sia vissuto passivamente, penso che alla lunga possa avere effetto positivo. E comunque in una società prevalentemente conflittuale come la nostra, con la contrapposizione assunta a regola di comportamento, trovo assai positivo che esista un luogo dove si ripropongono regolarmente gesti di pace e di riconciliazione.

C'è poi un altro fatto, il più significativo, che mi sorprende ogni volta. Nelle celebrazioni eucaristiche si radunano in chiesa, fianco a fianco, persone diversissime per cultura, ricchezza, prestigio sociale, istruzione, stato d'animo, equilibrio psichico, disponibilità. Insomma, gente dalle caratteristiche più disparate che pensano a chissà che cosa, ciascuna per proprio conto. Ebbene, quello che mi stupisce e mi affascina è vedere tutte queste persone che a un certo punto della messa, tutte assieme, si alzano e vanno a fare qualcosa che nessuno di loro sa realmente che cos’è. Un gesto che, proprio per questo, assume il significato di autentica comunione, conscia o inconscia che sia. Quale altro ambiente, ripeto, offre simili opportunità aggreganti? Parole e gesti possono essere criticati nella forma fin che si vuole, ma la sostanza resta.

Secondo la teologia tradizionale, nell'eucarestia si manifesta la presenza reale di Cristo, cosa che non ho difficoltà a credere, purché in senso sacramentale, come segno visibile di una realtà invisibile. Infatti io credo alla presenza reale di Cristo nel mondo attraverso il suo spirito (me ne vado, non mi vedrete più, ma vi lascio il mio spirito, egli dice nel vangelo). Credo alla sua presenza sempre e dappertutto, solo che i nostri limiti non ci consentono di vederlo, ed ecco che il simbolo eucaristico funziona da efficacissimo richiamo per risvegliarci ogni volta dalle nostre abituali distrazioni. Parlare di presenza reale mi sembra quindi corretto secondo il linguaggio sacramentale, mentre in senso antropomorfico sarebbe difficile capire che cosa si vorrebbe intendere, dal momento che pane e vino, alla vista ma anche all'analisi chimica (cioè a livello antropomorfico), restano pane e vino. Qualcuno potrebbe obiettare che se è presente sempre e dappertutto, che senso c'è a dire che è presente nell'ostia consacrata? Forse crederlo presente nell'eucarestia significa che non è presente in altri casi o luoghi? Oppure si potrebbe forse dire: qui è presente e qui è ancor più presente? Comunque la si voglia intendere, la sua presenza non si vede, è realtà invisibile, e quindi riconoscibile solo attraverso segni sacramentali.

Perciò non avrebbe senso dire che nell'eucarestia Cristo c'è o non c'è, secondo il criterio antropomorfico, mentre acquista senso con quello sacramentale. Ma questo vale nel rapporto personale di chi entra in sintonia con lui, il che equivale a dire che Cristo c'è per chi lo vuole incontrare e non c'è per chi non vuole, secondo l'auspicio evangelico: sia fatto a voi secondo la vostra fede. La mia fede mi'induce a credere d'incontrare Cristo nell'eucarestia, ma solo se voglio incontrarlo. La sua presenza, quindi, si porrebbe come un'occasione che può anche essere rifiutata (cosa che, tra l'altro, consente di risolvere molte difficoltà nei rapporti con altre fedi o religioni). Infatti sostenere che chi non crede alla presenza di Cristo sbaglia comunque (come afferma il tradizionalismo cattolico) appare una prepotenza, mentre il senso sacramentale schiude alla possibilità di un autentico spirito ecumenico, perché consente da un lato di affermare la propria fede senza svalutazioni, e contemporaneamente di non giudicare quella altrui. In sostanza è come dire: tu credi d'incontrarlo? Hai ragione e lo incontri. Tu non credi d'incontrarlo? Hai ragione anche tu, e non lo incontri.

In altre parole, si tratta di una verità relazionale che rimanda, per essere compresa, al tipo di rapporto col più grande di noi. È il Papa stesso (Francesco) in una sua recente lettera al giornale La Repubblica che dice testualmente: «la verità è relazione!», con tanto di punto esclamativo. Al contrario, invece, la verità dogmatica che si esprime a parole secondo l'uso antropomorfico e razionale nell'illusione di poter essere imprigionata in presunte formule oggettive, non può uscire dalle sue ambigue contraddizioni, tanto è vero che finisce per produrre, talvolta, risultati opposti a quelli che si propone.

Del resto, se il sacramento è relazione, affinché diventi realtà vivente bisognerà essere presenti almeno in due. Per questo non ha senso dire che Cristo c'è o non c'è (nell'eucarestia), perché c'è se e quando incontra qualcuno. Solo se si crea il rapporto sacramentale, mi sembra, si può anche parlare correttamente di presenza reale (di entrambi). Altrimenti, se l'incontro non avviene, nessuna ulteriore precisazione può aver senso. Insomma, il sacramento è un mezzo per facilitarmi quella relazione che può avvenire anche senza sacramento, ma in modo assai più difficile date le continue distrazioni quotidiane. È un mezzo privilegiato per educarmi a riconoscere dovunque la presenza reale dello spirito di Cristo, per rendermi consapevole che posso aderire alla sua ottica e al suo modo di sentire, fino a scoprire con stupore che proprio nell'assumere atteggiamenti e comportamenti analoghi ai suoi la mia vita si riempie di gioia e di pace.

Se l'eucarestia è un sacramento d'importanza capitale, altri elementi della nostra fede rivelano il loro senso quando sono visti e interpretati con linguaggio sacramentale. Per esempio, se resto legato all'antropomorfismo potrei chiedermi che senso ha pregare, dal momento che non vedo un interlocutore che mi ascolta e mi risponde. E poi potrei dirmi: che senso ha raccomandarmi a Dio perché faccia quello che saprà già lui se vuole e può fare? Bella pretesa! Ma se considero la preghiera un sacramento, allora sintonizzandomi con l'ambiente divino così come so e posso fare, sia pure attraverso i miei discutibili modi antropomorfici, entrerò in colloquio con l'eterno, e anche rinunciando a capirne i dettagli, questo particolare contatto con frammenti d'assoluto produrrà comunque risultati benefici su di me. Quanto poi all'interfaccia divina, non entro in merito alle valutazioni di sua competenza.

Ogni cosa che viviamo nella nostra dimensione umana può assumere significati nuovi fino a farsi, per ciascuno di noi, sacramento della realtà che travalica i limiti umani. Anzi, l'antropomorfismo stesso, nei suoi svariati aspetti, può essere vissuto e interpretato come forma proiettiva della realtà trascendente, che ovviamente non può contenere ma può indicare, sia pure in modo approssimativo. Del resto tutta la fede si propone in forma non razionale e simbolica, ed è per questo che se cade nei formalismi, anziché porre in evidenza gli aspetti sostanziali, rischia di condurre fuori strada. Proprio per questo, per tentare di eliminare alla radice i formalismi e di concentrarmi sull'essenziale, mi sto dedicando a questo studio che vivo come forma particolare di preghiera. La dimensione sacramentale mi sembra la via maestra per superare le ambiguità e andare oltre.

30. Verso celebrazioni telematiche?

Nella religiosità comune permangono tuttora molte connotazioni magico sacrali, che rischiano di alterare i significati sostanziali della fede. Per uscirne credo sia necessario il superamento radicale dei formalismi, che sovente finiscono per sostituirsi a ciò che ha vera importanza. Per fare un esempio significativo e paradossale, ricordo di aver assistito trent'anni or sono a una discussione piuttosto accesa tra due preti, l'uno tradizionalista, l'altro innovatore. Il primo, rigorosamente legato a pane azimo e vino di pura uva, a un certo punto se ne uscì con una domanda: «celebreresti l'eucarestia con polenta e birra?». Il seguito della discussione non ha importanza, ma la domanda cominciò fin da allora a lavorare nella mia mente, proponendomi riflessioni paradossali di grande interesse.

Mi sembra abbastanza ovvio che dicendo «fate questo in memoria di me» Gesù non abbia inteso dire di mangiare pane e vino, ma abbia usato quei simboli per esortare ciascuno a porsi al servizio degli altri. È come se avesse detto: condividete la vostra vita, nutritevi l'un l'altro per uscire dall'egocentrismo, diventare un corpo unico, camminare tutti insieme verso la realtà divina, come ho fatto io. Il pane e il vino dell'eucarestia sono definiti infatti "simbolo eucaristico" proprio perché richiamano, in modo simbolico, il dono della vita agli altri. Una metafora, quindi, da intendere nel suo significato profondo, al di là dei formalismi. Vero che Gesù ha anche detto: «chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna…. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda», ma non ha estratto bistecche dal suo corpo o spillato sangue dalle vene. Ha usato invece quei simboli.

Mi domando: ma allora? Il pane (azimo) e il vino (di purissima uva) avranno valore assoluto e irrinunciabile? Oppure staranno a indicare semplicemente il cibo che era sulla tavola in quel momento? E mi verrebbe da pensare: se mi trovassi nei panni di un missionario in un paese dove non si usa il pane di grano, ma una specie di pagnotta fatta di polenta, e non esiste vino ma solo una bevanda fermentata d'altro tipo, che farei di fronte al dilemma: non celebrare, oppure? Chiedo scusa ai tradizionalisti, ma penso che riflettendo tra me e me potrei anche dirmi: da parte mia ho voglia di eucarestia, che cosa accadrà se celebro con questi elementi impropri, unici che ho a disposizione? Non avendo alternative, se non rinunciare, immagino che deciderei di celebrare con quello che c'è, anche se si trattasse di polenta e birra.

Se infatti, secondo la logica sacramentale, pane e vino sono segni visibili di una realtà invisibile, c'è da supporre che sarà la realtà invisibile ad avere importanza sostanziale, e non il segno visibile. Se si trattasse di magia, allora sarebbero rigorosamente essenziali certi gesti, certe parole, certi elementi e non altri, ma è la stessa teologia tradizionale ad affermare che nella messa la consacrazione avviene per intervento divino, e non per quello che dice o fa il celebrante. Se a noi il sacramento serve per introdurci nel clima adatto a riconoscere e accogliere l'azione divina, allora è chiaro che l'intenzione è prioritaria rispetto a gesti, parole, cibi, bevande. Quanto al significato trascendente, lo conoscerà chi vive in quella dimensione.

Ciò non svaluta affatto la celebrazione canonica, che è una scelta liturgica esplicitamente concordata, e quindi garantisce la comunione ecclesiale. Ma se mi chiedo quali saranno state le intenzioni originarie di Gesù, mi pare che qualsiasi formalismo gli fosse indifferente, mentre ha inequivocabilmente preannunciato risultati conformi alle intenzioni, dicendo: «sia fatto a voi secondo la vostra fede». Quel che appare sostanziale è la comunione ecclesiale, perché l'eucarestia ha senso come incontro di persone che condividono la propria vita nel nome di Cristo. Ed è tenendo fermo questo punto che diventa possibile interrogarsi correttamente su ipotetiche forme di celebrazioni non canoniche, problema che continua a porsi in certe zone del pianeta e ha avuto una stagione di profonda riflessione durante i primi anni del dopo concilio, come ben evidenziato dalla Teologia della Liberazione. In America latina, in particolare negli anni settanta e ottanta, molte comunità cristiane di base, prive di preti, si sono interrogate a lungo sul dilemma: che fare? Rinunciare a celebrare l'eucarestia, oppure celebrare senza prete ordinato? E la riflessione collettiva, in piena comunione ecclesiale con il coinvolgimento anche di numerosi vescovi, ha portato a decidere di celebrare lo stesso, con l'ovvia conclusione che qualcuno (lassù) saprà che cosa significa.

La raccomandazione generale è stata piuttosto quella di non mettersi a scimmiottare i preti, ma di inventare forme nuove di celebrazione. E in proposito, per analogia, mi sembra significativo raccontare l'esperienza vissuta nella nostra Comunità del Mattino (a Roma) ai tempi della sua rigogliosa vitalità. Le nostre abituali celebrazioni eucaristiche sono state presiedute sempre da preti ordinati, malgrado non ci mancassero gli inviti a rompere gli schemi e dir messa per conto nostro. Ma noi non abbiamo mai avuto difficoltà a trovare preti disponibili e contenti di unirsi a noi nella nostra cappella, e quindi perché mai avremmo dovuto rinunciarvi? E tuttavia è accaduto anche qualcosa di straordinario.

La ricerca di nuove forme di spiritualità è sempre stata per noi molto intensa, e tra l'altro si era ben presto affermata l'abitudine di alzarci la notte, periodicamente, per ritrovarci in cappella tra le 3 e le 4 e mezza, in prevalente silenzio, per poi tornare a dormire. Una notte qualcuno ha posto sul tavolino un piatto con del pane e un bicchiere con del vino, e alla fine, non senza una certa sensazione di stupore, tutti abbiamo mangiato e bevuto. Naturalmente ci siamo interrogati su quale fosse il significato di tali gesti, ma volutamente abbiamo rinunciato a rispondere. Da allora, nelle nostre celebrazioni silenziose notturne, il pane e il vino sulla tavola non sono più mancati. E al termine abbiamo sempre continuato a mangiare e bere con rinnovato stupore.

Ogni tanto, tra noi, nasceva qualche interrogativo, ma l'unica cosa che ci apparve ovvia è che ci sarebbe stato tutto il tempo, in quel silenzio, per recitare qualsiasi canone liturgico. Ma allora, ci veniva spontaneo chiederci, le parole valgono di più del silenzio? E la forma del rituale più del coinvolgimento nel nome di Cristo? Ora, ricordando ancora che nel sacramento è Dio stesso a operare, mi domando se la nostra preghiera notturna non fosse un'autentica celebrazione eucaristica silenziosa. Sia fatta la tua volontà, era la nostra preghiera e il nostro auspicio.

Sta di fatto che spiritualità e liturgie sono state e sono sovente utilizzate anche in modo ipocrita e strumentale, per raggiungere scopi e risultati ben lontani dagli insegnamenti di Gesù. Come dire che il formalmente esatto, secondo i canoni tradizionalisti, non preserva affatto dal tradimento delle intenzioni, perciò, se avendo a disposizione pane e vino si scegliesse polenta e birra per disprezzo della tradizione, o per contrapporsi all'autorità, o per superficialità, direi che il fuori strada sarebbe indiscutibile. Ma se si trattasse di scegliere tra una celebrazione che mette assieme pane, vino e ipocrisia, e un'altra fatta di polenta e birra, condite però dall'autentico spirito di Cristo, personalmente non avrei dubbi sulla scelta.

Nuovi interrogativi, forse un po' birichini ma proprio per questo serissimi, sento sorgere al giorno d'oggi dall'uso sempre più consolidato di trasmettere liturgie attraverso canali televisivi. Qualche domenica fa la mia sposa e io eravamo entrambi acciaccatelli e non in grado di uscire da casa, così abbiamo partecipato alla messa per televisione ponendo sul tavolino un po' di pane e un bicchiere di vino, che abbiamo consumato al momento della comunione. Sul significato lasciamo decidere allo Spirito Santo, mentre noi al massimo abbiamo mangiato un boccone di pane e bevuto un sorso di vino. Però, e su questo non abbiamo dubbi, ci siamo sentiti in profonda comunione ecclesiale.

Ora che gli esseri umani stanno imparando a fare tutto via internet, promuovendo sempre più le comunicazioni a distanza (vedi ad esempio le videoconferenze), mi domando perché mai dovremmo escludere che lo Spirito Santo sia capace di consacrare anche lui a distanza, per via telematica: una semplice dilatazione dello spazio che cosa cambia? Personalmente, qualche tempo fa ho chiesto a un nostro amico prete che sta in Brasile di celebrare una messa per noi via internet, con l'intenzione esplicita di consacrare a distanza, ma mi ha risposto che deve pensarci.

Capisco che alcuni troveranno stravaganti queste mie riflessioni, o forse addirittura blasfeme, ma credo che la via di un rinnovamento permanente possa trarre grandi benefici anche dal riflettere su considerazioni paradossali, capaci di scompaginare i luoghi comuni. Liberarsi dai pre-giudizi per smascherare i formalismi ritualistici non può mai essere blasfemo, ma al contrario credo sia elemento fondamentale per scoprire l'autentico significato del sacramento. E anche per imparare a morire.

31. Off limits

La parola sacramento rimanda abitualmente ai sette considerati canonici, ma il suo significato (segno visibile di una realtà invisibile) va ben oltre. Di fatto, qualsiasi cosa potrebbe farsi sacramento, come dice anche Leonardo Boff in un suo scritto dove racconta che il mozzicone di sigaretta è diventato per lui sacramento di suo padre, perché gli basta vederne uno per sentirlo rivivere, con forte coinvolgimento emotivo. Da parte mia potrei fare un esempio simile: mio fratello, da malato terminale, ha vissuto gli ultimi tre mesi della sua vita in casa mia, dove c'è una scala che lui saliva faticosamente per andare nella sua camera da letto. A metà della rampa, appeso con dei fili al soffitto, c'è un gabbiano di legno che, con una piccola spinta, sembra volare, e ogni volta mio fratello gli dava la spinta, soffermandosi poi qualche tempo a osservarlo. Oggi quel gabbiano (visibile) è per me sacramento di mio fratello (invisibile), e a guardarne le evoluzioni provo tutta l'emozione di sentirmi in un rapporto speciale con lui. Un mistero inspiegabile, ma coinvolgente.

Il sacramento si esprime attraverso linguaggi simbolici che vanno al di là di ogni tentativo di definizione razionale, e superano ogni limite antropomorfico. Ogni volta che ci penso torno a domandarmi che altro potrebbe essere il piccolo meraviglioso amore che sperimento ogni giorno con la mia sposa, se non segno visibile di un invisibile grandioso e prorompente amore d'insieme. Come e dove potrebbe attingere la sua stimolante energia, se non in un comune bacino senza limiti a disposizione di chiunque? E questo ovviamente vale non solo per l'amore coniugale, ma anche nella sua dimensione più ampia, che comprende l'amicizia, la simpatia, la benevolenza, lo spirito di perdono, cioè tutti gli elementi caratteristici di quell'amore universale che Gesù Cristo non smetteva di indicare come realtà invisibile, ma che può rendersi ben visibile nei gesti quotidiani.

A me piace particolarmente soffermarmi sul mio splendido e insaziabile amore coniugale, che definirei un mistero a 361 gradi (non esistono? Lo so, ma è divertente esagerare un po', visto che siamo nell'incredibile!). Innanzi tutto oserei dire che non lascia spazio ad altro, eppure mi capita di fare tante altre cose: stranissimo! E poi so bene che il nostro non sarà l'unico grande amore, tuttavia devo aggiungere che non ne sento mai parlare da nessuno in termini così entusiasti. Quando descrivo il matrimonio come autentica grazia di Dio mi accorgo di suscitare perplessità, ma se alcuni pensano si tratti di esagerazioni non mi meraviglio, perché stenterei io stesso a crederci, se non mi capitasse di viverne quotidianamente la conferma. Non è che, con la mia sposa, ci abbandoniamo a chissà quali voli pindarici, perché la nostra vita si potrebbe dire ormai piatta, banale e moderata. Però è condita da un amore esagerato. Talvolta mi domando se sono scemo, ma mi sento attratto da lei, vecchia com'è, ancor più di quando era giovane.

Che il nostro amore sia tuttora vivo è chiaramente visibile a tutti, e posso dirlo per i riscontri che riceviamo. Ma noi due ci troviamo d'accordo che probabilmente quello percepito dagli altri è pochissimo, rispetto al nostro vissuto. Il fatto è che ci divertiamo un sacco a essere sposati, tanto che potremmo trovarci immersi nell'estasi coniugale permanente, se non ci lasciassimo distrarre dalle necessità quotidiane. Ma basta un niente per richiamarci all'ordine, basta ad esempio ritrovarci al mattino stesi accanto sul letto, con le nostre braccia che si completano a vicenda. Che gustusura, direbbero i brasiliani! A volte passiamo ore abbracciati (anche se magari quel pignolo dell'orologio indica un tempo assai inferiore), e quando ci domandiamo reciprocamente: come t'immagini l'eterno? La risposta obbligata è: come questo nostro abbraccio. Ogni volta ci sentiamo profondamente grati per l'opportunità di vivere una tale stuzzicante monotonia, e dato che paradiso è scambio di gratitudini (come dice un anonimo dei nostri giorni) mi domando in qual modo potremmo definire il nostro abbraccio, se non anticipo di paradiso, preludio dell'amore d'insieme, introduzione all'oltre. Potrei aggiungere che il mio Cristo concreto, quello che ogni giorno m'insegna ad amare, è proprio la mia sposa. Perciò, anche se mi vengono i brividi a pensarci, capisco che noi due, col nostro amore grandissimo ma pur sempre limitato, potremmo anche essere sacramento dell'amore d'insieme, o forse della comunione dei santi. Mica perché siamo bravi noi due, sia chiaro, ma è perché ci coinvolgiamo l'un l'altra senza riserve e senza atteggiamenti difensivi. E condividiamo soprattutto la fede nel più grande di noi, nell'amore totale di cui facciamo parte.

Lassù nel cielo Dio unisce chi si ama, dice la famosa canzone, ma l'unione comincia qui, sulla terra, e possiamo testimoniare che è possibile, dal momento che è capitato perfino a due mediocri come noi. Ci domandiamo se c'è qualche sbaglio nella programmazione divina, perché troppa grazia continua a inondarci, come se qualcuno, lassù, avesse dimenticato il rubinetto aperto. Perché proprio a noi? Che cosa abbiamo fatto per meritarcela? Vero che, se l'amore è un'opportunità con risposta obbligata, noi ci siamo risposti con prepotente decisione. E immagino che non saremo i soli, anche se, ripeto, non ne sento mai parlare da nessuno in questi termini.

Ecco l'estasi coniugale permanente, un livello d'amore che non può più finire, una dimensione dove tutto concorre al bene, come dice San Paolo. A me è capitato di sperimentarlo ancora una volta in questi giorni estivi. In una delle sue quotidiane nuotate la mia sposa ha centrato una grossa medusa che le ha avvolto la coscia destra. È indescrivibile l'abrasione che le ha procurato con decine di bolle alcune delle quali del diametro di almeno 5 o 6 centimetri. L'apoteosi della reazione cutanea è esplosa due notti dopo, durante la quale abbiamo passato parecchio tempo a cercare, per quanto possibile, di lenire il bruciore e disinfettare le irritazioni, che solo dopo diverse ore si sono calmate. Tra medicazioni e altro, quella notte ci siamo anche parecchio coinvolti nel nostro amore, trovando occasioni per prenderci in giro, come da tempo usiamo fare, e scherzando anche sul disappunto per la rinuncia obbligata alle sue quotidiane nuotate, col rischio di veder compromesso questo aspetto della sua estate, a lei particolarmente gradito. Pazienza! Siamo tornati a dormire, ma la mattina dopo, mentre stavo trafficando al computer, mi sono sentito una carezza in testa accompagnata dalla sua voce che mi diceva: «dovremmo essere grati alla medusa, perché questa notte ci ha fatto vivere un momento di tenerezza speciale». Devo confessare che non avrei mai pensato di considerare una medusa sacramento della nostra gratitudine, e tuttavia la proposta mi ha commosso. Grazie, dunque, signora medusa, anche se, sinceramente, preferiremmo che non ti facessi più vedere.

Scontrarsi con le meduse, nuotando, può capitare anche da giovani, e già ne avevamo avuto esperienza anni addietro. Quel che invece mi stupisce è vedere come gli acciacchi e i problemi dovuti all'età non impediscano all'amore da vecchi di essere meraviglioso. E per non perderci neppure un istante, riusciamo a vivere come motivo di divertimento anche quelle sottolineature d'una prossima rottamazione che emergono dagli atteggiamenti comuni, perfino quando sono lontanissimi da intenzioni malevole. Ad esempio, tra le tante telefonate promozionali, qualche giorno fa mi ha chiamato qualcuno dell'American Express, e malgrado mi senta ormai abilissimo a scaricare i piazzisti, quello pareva non volersi arrendere. Allora gli ho detto che sono vecchio, e quindi con scarse occasioni di utilizzare la relativa carta di credito. Lui naturalmente mi ha chiesto quanti anni ho, e quando gliel'ho detto mi ha risposto con un «ah, beh, allora!» affrettandosi a chiudere la comunicazione. Negli stessi giorni una risonanza magnetica ha diagnosticato alla mia sposa una voluminosa ernia del disco, oltre ad alcune altre più normali, al che il neurologo ha subito detto: «alla sua età di operazioni non se ne parla».

La sua età, la nostra età, quella che ci accompagna da sempre, è partita dall'estate del 1931. Giorni fa, poco prima del suo compleanno, sono passato davanti a una cartoleria che vende biglietti d'auguri con tanto di anno d'origine stampato in bella evidenza sul frontespizio. Ho subito pensato di comperarne uno, ma dopo accurata ricerca ho scoperto che non ce n'erano in data anteriore al 1932, e anzi l'espositore non li prevedeva neppure. Alla richiesta di spiegazioni il cartolaio mi ha risposto che degli anni precedenti in commercio non se ne trovano più, e mi ha fatto vedere un catalogo. Allora ho girato per altri negozi che vendono articoli simili, ma niente da fare: di prima del 1932 neppure l'ombra. La cosa mi appare di grande interesse, così, dopo aver fatto a voce gli auguri alla mia sposa, abbiamo riso insieme all'idea di essere ormai entrambi fuori corso, off limits, null'altro che PPC (pronti per crisantemi, come si usava dire al tempo dei sessantottini).

Non saprei dire se sto imparando a morire, o se questo mio studio è un'esibizione velleitaria, ma non dimentico che prima o poi noi ce ne andremo comunque (sarebbe così bello assieme!). Che cosa resterà? Come testamento, a figli, nipoti e bisnipoti (di sangue e di spirito) lascio l'amore vissuto con la loro rispettiva mamma, nonna, bisnonna. Qualche sacramento che li aiuti a ricordarlo meglio, se vorranno, se lo sceglieranno loro, personalizzandolo ciascuno secondo i propri gusti.

32. Perché proprio a me?

La parte visibile di un qualsiasi sacramento è facile da identificare, ma la realtà invisibile? Che cosa possiamo azzardarci a immaginare? Prima di proseguire so di dovermi ben ficcare in testa che nulla, ma proprio nulla si può conoscere dell'oltre: tutto quello che pensiamo, diciamo, immaginiamo della dimensione trascendente, ma proprio tutto tutto, non sono altro che proiezioni psicologiche nostre. Ma allora, mi domando, non è velleitario tentare approfondimenti? E tuttavia mi chiedo se le proiezioni della mia psiche non abbiano anche loro un senso. Dopotutto, se può apparire assurda ogni ipotesi che va oltre il visibile (o scientificamente sperimentabile), anche se Dio fosse stato inventato dall'uomo, come dicono gli atei, potrebbe pur sempre esistere lo stesso.

A questo punto diventa fondamentale un interrogativo: si può credere all'assurdo? A prima vista appare una domanda retorica, e tuttavia, forse, non lo è del tutto. Quante cose assurde e apparentemente incredibili ci sono nella nostra realtà terrena? Quali cose scoprirà la scienza nei prossimi anni, che oggi non sappiamo prevedere in alcun modo? Proviamo a immaginare che cosa avrebbero pensato i nostri progenitori di qualche generazione fa a sentirsi dire che nell'aria ci sono infiniti suoni e immagini, ascoltabili o visibili attraverso delle scatolette chiamate radio o televisione o cellulari! Non avrebbero gridato all'assurdo? Come esempio personale ricordo che negli anni trenta mio nonno si era costruito da solo una radio a valvole, e lo vedo ancora seduto ad ascoltare musica battendo il tempo con le dita della mano sulla sua testa pelata (cosa che talvolta faccio anch'io: sacramento di mio nonno!). Ricordo anche di avergli sentito dire che da giovane non l'avrebbe mai creduto possibile, e se qualcuno gliel'avesse predetto lo avrebbe preso per matto. Del resto, all'inizio del ventesimo secolo, moltissimi (compresi alcuni scienziati) dicevano di Marconi che era un illuso, e di Einstein che straparlasse. Qualche anno dopo, nelle sue ricerche, Teilhard de Chardin finiva per concludere che “solo il fantastico può essere vero”.

Quanto all'individuo umano, ci sembra normale soltanto perché lo incontriamo quotidianamente e non possiamo negare che esiste, ma quando mi guardo allo specchio rimango stupefatto. Confesso di meravigliarmi ogni volta che mi accorgo di essere me stesso, ma non perché sono proprio io: mi meraviglierei di essere chiunque. Da dove traggono origine tutte le mie sensazioni, belle o brutte, triste o sublimi? Da un agglomerato di materia inanimata che non ha alcun senso o significato, al di là dei suoi singoli momenti storici? Non sarebbe assurdo ipotizzare che le coscienze individuali siano il massimo obiettivo di un cosmo privo di significato d'insieme? Se così fosse, mi sembrerebbe una stranezza assai maggiore delle più incredibili e stravaganti favole divine. Perciò, direi, andiamoci piano con l'assurdo, perché non è un buon metro di misura per definire che cosa sia o non sia credibile.

D'altra parte anche i segni visibili, quelli che conosciamo e incontriamo tutti i giorni, sono a volte stranissimi, come appunto gli individui che restano imprigionati ciascuno in se stesso. Quando mi guardo attorno vedo tanti giovani belli e aitanti: che meraviglia! Ma rappresentano solo un momento di passaggio di una parabola che porterà ciascuno di loro a invecchiare negli anni, fino a una decadenza fisica inarrestabile (un percorso che conosco per esperienza diretta). Giovani e belli ma già destinati a priori, come tutti, a diventare vecchi e sfioriti. E se un giovane appare sacramento della vitalità cosmica, un vecchio di che cosa può essere sacramento? Ma poi c'è un altro aspetto che mi suscita interrogativi inestricabili. Per fare un esempio, da tempo mi capita d'incontrare per le vie del quartiere una donna di mezza età, piccola, insignificante, sgraziata, con lineamenti spiacevoli. Non ha difetti fisici ma si potrebbe dire (poveraccia!) che è tutta un difetto, tanto da richiamare alla mente il colorito termine romano: stortignaccola. Naturalmente ha pieno diritto al massimo rispetto e alla più generosa benevolenza, anche perché indipendentemente dallo specifico aspetto fisico ognuno ha comunque le sue bellezze particolari. Ma nessuno potrebbe negare che quella signora è proprio sgradevole, ed è difficile pensare che possa risultare attraente almeno per qualcuno. Perciò mi domando: come può madre natura essere a volte così crudele? Qui non si tratta di deformazioni o mutilazioni, cioè di errori di programmazione o di incidenti, ma di qualcosa che potrebbe far parte della cosiddetta realtà "normale". Ma normale in che senso? Personalmente non son certo un Adone, ma mi sono sempre considerato normale, e non ho mai avuto difficoltà di rapporti con altri, ma di fronte a certe persone mi ritorna spesso alla mente un interrogativo angosciante: come sarà la vita di una brutta? E mi verrebbe voglia (si fa per dire) di cercarla, corteggiarla, coccolarla, ma con la chiara coscienza che si tratta solo di sentimentalismi teorici. Comunque sia, l'esempio mi serve per dire che se esiste un significato d'insieme, anche la vita di una brutta potrà avere un senso, mentre se ciascuna parabola vivente vale solo per se stessa, e una volta finita è come se non fosse mai esistita, allora la perplessità mi travolge. Non parlo di giustizia, sia chiaro, ma dell'assurdo di un'ipotesi materialistica senza significati.

Rispunta l'antico quesito: perché certe cose (belle o brutte che siano) capitano proprio a me? E perché non certe altre? Per questo, tra gli ultimi interrogativi che mi pongo per tentare d'imparare a morire, c'è quello di sondare la realtà invisibile, innanzi tutto per identificare che cosa non potrei mai credere, ma anche nella speranza di intuire almeno qualcosa di credibile. Sento che uno sguardo sereno verso la realtà d'insieme e i valori che rappresenta diventa determinante per raggiungere un equilibrio nei confronti di me stesso, punto assolutamente centrale per tentare il definitivo distacco dall'individuo che porta il mio nome. Mi pare spontaneo considerare l'essere umano una potenzialità che fa parte di una realtà d'insieme, che da un lato può svilupparsi fino al proprio compimento, ma che dall'altro può anche andare sprecata fino a inaridirsi del tutto. Quali prospettive si apriranno in entrambi i casi? Come uscire da queste contraddizioni? A ben pensarci, la risposta mi appare chiarissima e convincente: è l'individualismo antropomorfico a essere diabolico, e quindi ingannevole e fuorviante. L'amore per il più grande di me mi rende chiaro che è il mio individuo a separarmi dall'insieme, che sono i miei limiti a tenermi imprigionato e separato dal tutto. Ma come uscirne? Potrei dire che non m'importa nulla di una eventuale mia nuova vita futura, mentre sarei anche contento di morire per sempre e finire nel nulla, se questo fosse il futuro a me destinato. A patto però che tutto abbia un senso. E aggiungerei che non ci tengo neppure a conoscerlo, questo senso, a patto che esista, mentre alla sola idea di un non senso, all'ipotesi nichilistica, mi prende una tristezza totale, per non dire altro.

Se invece un senso d'insieme esiste, la mia fede mi stimola a credere che sarà il meglio per me e per tutti, e non m'importa sapere che cosa ne sarà di me personalmente, una volta che sarò defunto (compiuto). E poi, mi domando, potrei essere più o meno contento se il meglio per me si manifesterà in una forma piuttosto che in un'altra? Che cosa cambierebbe? Non la mia ma la tua volontà significa riconoscere che l'individuo non ha sbocchi ed esprimere esplicitamente la fiducia nei valori d'insieme. È rinuncia alla pretesa di determinare personalmente quel non dipende da noi, e quindi un atteggiamento che mi sento di condividere pienamente, purché inteso non in senso antropomorfico, ma come evoluzione naturale di una prospettiva che offre il meglio per tutti. Ma qui il discorso si fa complicato, e capisco di doverlo affrontare senza pregiudizi, o per dire meglio, in modo spregiudicato.

Che cosa potrebbe dunque rendermi più facile imparare a morire? Se inseguissi la speranza di un qualche beneficio futuro significherebbe che non sono ancora libero dai possessi, in particolare dal possesso di me stesso, della mia identità. E quindi che sono ancora lontano dall'aver imparato. Ecco da dove mi viene lo stimolo a sondare la realtà invisibile, cosa che m'interessa talmente da farmi capire che in vita mia non avrei mai potuto fare l'insegnante, perché la voglia di apprendere è in me così forte da rendermi un apprendista di mestiere: un eterno apprendista.

Verso l'addio

          Or che lento si spegne ogni desio
          quanto tempo ancora ci vorrà
          per giungere al compimento mio?

                    Non saprei dire, nessuno lo saprà
                    resta solo l'attesa dell'addio.

                              Presto o tardi sarà quel che sarà.

33. L'individuo deve morire

Più passa il tempo e più mi convinco che il punto chiave di tutta la ricerca di senso sta nella misteriosa e inquietante frase evangelica: «Chi vorrà salvare la propria vita la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia la troverà». È inutile continuare a girarci attorno, mi dico, meglio prendere il toro per le corna (toro sta per individuo e corna per i suoi limiti). E dato che l'argomento riguarda ancora il visibile, almeno in parte, confido possibile identificare qualche spiegazione logica.

Ormai ho capito che il punto critico sul quale confrontarmi è il mio stesso individuo: quanto ci tengo? Quanto sono attaccato alla mia identità? Quanto la vivo come un possesso? Quanto voglio "salvare" la mia vita individuale? Le mie ricerche attraverso gli anni mi hanno convinto che il senso di tutta la realtà esistente, fisica e metafisica, stia nel significato stesso di individuo, e in quali sono le sue possibilità di esistere al di là della parabola temporanea.

Tornando all'antica domanda: perché proprio a me? Perché certe cose capitano a un individuo e altre a un altro? Filosofi e teologi, nella storia, hanno tentato più risposte, che vanno dal considerare quanto avviene come conseguenza diretta dei comportamenti propri, o dei genitori (segno della benevolenza o dell’ira divina), o comunque che è Dio a volerlo o permetterlo (ancora oggi può capitare, a qualcuno che sta soffrendo, di sentirsi dire che è Dio a mandargli le sofferenze per fargli capire meglio che lo ama!). Vi sono poi altri tentativi di spiegazione, come ad esempio quello di Platone, il quale sosteneva che di fatto ciascuno sceglie la propria vita, e quindi non ha ragioni per lamentarsene. Può anche darsi che in tutte le ipotesi vi sia qualcosa di valido, purché non vengano prese alla lettera ma rimandino a significati simbolici. E se qualcuno le trova soddisfacenti, buon per lui.

Da parte mia, invece, credo che la spiegazione sia molto più semplice e lineare. Noi siamo parte di un immenso insieme vitale che nei modi più disparati si esprime in forme limitate, compatibili con l'ambiente naturale in cui viviamo. Queste forme limitate sono gli individui (non solo umani ma anche animali o vegetali). Ovviamente i singoli individui hanno destini diversi fra loro, perché se si può presumere che nell’insieme si verifichino tutte le esperienze possibili, a ognuno tocca solo la sua particolare, inevitabilmente diversa tra l'uno e l'altro. A questo punto, di fronte alla domanda: perché proprio a me? si potrebbe rispondere come nel celebre giochetto: e a chi se no? Perché a qualcuno o a qualcun altro dovrà pure capitare quella determinata esperienza di vita, quella porzione individuale della realtà vivente, bella o brutta che sia. Per il singolo individuo può essere molto diverso vivere l'una o l'altra, ma nell'insieme tutte saranno vissute.

Si potrebbe dire che l’individuo partecipa all'insieme vitale come racchiuso in una prigione, e vive guardando la realtà attraverso le sbarre dei suoi limiti. Perché per sue stesse caratteristiche strutturali la vita individuale separa dagli altri viventi, e la distanza da individuo a individuo è incommensurabile: una contraddizione che spinge a dire: io, io, io, mentre solo dopo vengono gli altri. Istintivamente all'individuo interessa la propria identità, cosa che inevitabilmente spinge a promuovere la legge del più forte per imporsi agli altri, con tanta più prepotenza quanto più robuste sono le proprie caratteristiche identitarie.

C'è una differenza radicale tra l'ottica individuale e quella d'insieme, perché l'individuo e l'insieme stanno fra loro in rapporto piuttosto particolare: sono allo stesso tempo contrari e complementari l'un l'altro. Così come il relativo può dirsi contrario all'assoluto, ma allo stesso tempo gli è complementare perché resta pur sempre compreso al suo interno, senza poter assumere una propria autonomia indipendente. Per analogia, come individuo mi sento complementare all’insieme, ma allo stesso tempo mi rendo conto di esserne anche il contrario, perché avverto che la mia realtà, fatta com'è di vita e limite che stanno in contraddizione fra loro, contraddice la vitalità nella sua aspirazione alla pienezza. Perché la vita desidera essere libera per sua natura e vorrebbe spaziare oltre ogni limite, mentre personalmente, come individuo, non faccio che comprimerla e imprigionarla, fino a creare una serie di cortocircuiti che sono all'origine di tutte le contraddizioni antropomorfiche. Ecco perché m'interrogo su quale rapporto voglio avere con questo mio individuo, che pretenderebbe di fissarmi (e soffocarmi) dentro le mie ambiguità.

L’individuo può esistere solo nel temporaneo: nasce cresce produce decade muore. In altre parole, una potenzialità che può svilupparsi ed esprimersi più o meno rigogliosamente, ma destinata comunque a passare, mentre al di là dello spazio e del tempo, nell'illimitata dimensione divina, è ovvio che non possa esistere, perché sono i limiti a fornirgli un'identità. Oltre a questo, poi, ipotizzare una schiera d’individui tutti fissati per sempre così come sono, tutti impegnati nei loro limiti a godersi la gloria di Dio, a me pare un evidente assurdo (oltre che a una cosa noiosissima). Inoltre, se vogliamo immaginare l'ambiente divino come un insieme vitale caratterizzato da armonia e unione, è ovvio che non possa farne parte chi per sua natura crea divisione, col suo pretendere d'individuarsi da quel che lo circonda. Come dire che l’individuo deve morire, e la morte se lo porterà via con sé.

Molte persone interpretano la fede come speranza di sopravvivere, di ottenere qualcosa oltre la parabola terrena, con tutte le alternative possibili, perché c’è l'inferno e il paradiso, e bisogna regolarsi di conseguenza. Mi consola ricordare che i mistici medioevali dicevano, molto saggiamente, che raccomandarsi a Dio per paura dell'inferno è da schiavi, e cercarlo per guadagnarsi il paradiso è da mercenari. Insomma, ogni aspirazione alla sopravivenza del proprio io è interessata (magari inconsciamente) e quindi, per imparare a morire, bisogna imparare a fare il vuoto dentro di sé, a realizzare la vacuità, come insegna la spiritualità orientale (ma anche quella cristiana se depurata dal pregiudizio di cercare l'approvazione dei potenti, o ancor più dell'Onnipotente!).

Qualcosa penso di aver imparato da questo mio studio: la voglia di sopravvivere è l’ultimo individualismo, quello che più rischia di fregarmi. Perciò capisco che per imparare a morire devo poter dire, senza ipocrisie, che il mio individuo non m’interessa più. Devo imparare a non sentir più la mia identità come un possesso, devo perdere quello che ho paura di perdere, e senza sconti. Sto già pregustando il momento in cui, finalmente, proverò interesse per la mia persona solo e soltanto come proiezione verso il superamento di ogni aspetto individuale.

Capisco che la sola ipotesi che l'individuo sia destinato a sparire appaia sconvolgente, e forse qualcuno si rifiuterà di prenderla in considerazione, eppure la sua assurdità rientra nella realtà visibile, che possiamo capire. Anche a me, quando ci penso, vengono i sudori freddi, ma d'altra parte il concetto stesso d'individuo non offre sbocchi, e quindi, mi domando, che cosa potrei pretendere da quello che definisce la mia identità personale? Se prendo sul serio Gesù Cristo (chi vorrà conservare la propria vita la perderà) capisco di non poter chiedere nulla, nulla, assolutamente nulla: non la mia ma la tua volontà.

In conclusione, la vita individuale è comunque un disastro. Infatti l'antico quesito: perché proprio a me, non solo se lo pone lo sfortunato costretto a soffrire, ma anche il fortunato che ha una vita piacevole. Posso dirlo per esperienza personale (della quale ho già parlato fin troppo) sottolineando la mia vita felice, in particolare per lo splendido rapporto d'amore con la mia sposa che, stimolandomi la sensibilità per il bello, mi acuisce ancor più la sofferenza per tutte le tragedie che altri sono costretti a vivere in questo nostro mondo meraviglioso e infame. Attualmente, ad esempio, grandi tragedie si svolgono soprattutto in Egitto e in Siria, ma in qualsiasi momento da qualche parte del globo c'è sempre qualcuno che soffre: sempre, sempre. Che strazio! Come si fa? Da tempo ho imparato a intrecciare insieme felicità e angoscia, unica possibilità perché la felicità possa vivere, altrimenti le sarebbe di fatto impossibile. Ma essere felici in un mondo infame è difficile da sopportare! D'altra parte che cosa dovrei fare? Rinunciare a essere felice? Fossi matto! Qualcuno potrebbe protestare e dirmi: ma come, ti tocca in sorte una vita felice e la butti via? E così torno a chiedermi: perché in questo mondo infame è toccato proprio a me il privilegio di vivere il paradiso? Insomma, anche quando le cose vanno bene non si può neppure essere felici in pace!

Per questo l'individuo è un meraviglioso disastro, non solo per gioie o tragedie che è costretto a vivere, ma anche per il risultato finale. Perché rappresenta una grande potenzialità destinata a realizzarsi o a sprecarsi, attraverso la sua parabola temporale, ma in ogni caso costretto ad andarsene. E la sua vita, bella o brutta che sia, finirà comunque. Drammatico o meraviglioso, ma sempre un disastro.

Insomma, l'individuo che porta il mio nome (e che a me piace tanto, sia chiaro) non mi offre sbocchi, e capisco che potrò imparare a morire nella misura in cui saprò distaccarmene del tutto. Ma a questo punto, dato che sono destinato a sparire (ammesso che me ne renda conto con sincerità) che altro potrebbe avere interesse? In fondo, una volta percepito il senso dell'oltre, dovrei sapermi accontentare dell'aspetto visibile del sacramento, ma per un inguaribile ricercatore par mio sarebbe difficile rinunciare a tentare ancora qualche riflessione sull'oltre. E pur restando ben fermo nella coscienza di non poterne sapere nulla, m'interrogo lo stesso nella speranza di vedere aprirsi qualche spiraglio su "fantastiche" ipotesi transindividuali. Un argomento che molti, mi sembra, trattano con aria di sufficienza, mentre alimenta non poco il mio stupore e la mia insaziabile curiosità.

34. Il profumo divino

Riconoscere i difetti dell'individuo non significa affatto svalutarne il valore, che è e resta altissimo e determinante, ma non in se stesso: vale come proiezione verso la realtà d'insieme, come percorso di trasformazione. Tenendo ben fermo questo punto, so benissimo che usare la logica per indagare quel che va oltre la logica è una bella pretesa, e tuttavia, una volta superata la ristretta visione individualistica, credo si possano intuire molte cose. Prima però d'interrogarmi su ipotetiche varianti terminali dell'individuo vorrei mettere a fuoco quale senso possa avere la parola Dio, o meglio, se esiste qualcosa che merita di essere chiamata con tale nome. Ma vorrei subito tranquillizzare i lettori: non ho la pretesa di fare un discorso oggettivo, vorrei solo tentare di trasmettere le sensazioni che provo dentro di me.

Pur tenendo ben fermo che parlare di Dio significa parlare di nostre proiezioni, mi domando perché mai dovremmo escludere che le nostre proiezioni possano anche aiutare a indagare oltre i limiti dell'antropomorfismo. Socrate usava ripetere che non si può sapere com'è Dio, e tuttavia si può sapere come non è, e la prima cosa che mi viene in mente è che non può essere peggiore di me. Sembra un'affermazione banalmente ovvia, eppure moltissime immagini teologiche descrivono un Dio peggiore dell'uomo, cosa che da giovane ho vissuto in modo traumatico. Infatti per le immagini meschine e di parte che mi avevano insegnato al catechismo ho perso la fede, che ho poi faticato non poco a ritrovare (anche se, a posteriori, considero il relativo travaglio come una grande fortuna). Oggi, malgrado il progresso esponenziale della scienza e gli sconvolgimenti globali della società umana, siamo ancora legati a un infantilismo teologico che, pur se non più a livello delle divinità umanizzate dell'antica Grecia, continua a proporci di ragionare secondo criteri antropomorfici. Ad esempio, mi pare ovvio che il concetto di un Dio schierato da una parte contro l'altra, così abbondante nella nostra religione tradizionale, nasca soprattutto dall'assurda pretesa di parlare del trascendente in termini e linguaggi individualistici. Come potrebbero altrimenti esistere certe immagini che contraddicono Cristo in nome di Cristo? Come si potrebbe altrimenti spiegare tutto il sangue versato per difendere una presunta verità che proprio in tal modo contraddice se stessa? Anche Papa Francesco ora ripete a chiare lettere che violenza e fede sono incompatibili, e sarebbe interessante sapere se con tale drastica e secca affermazione intenda rileggere senza pregiudizi tutta la storia della Chiesa, cosa indispensabile per un autentico rinnovamento.

Il problema non è soltanto religioso, ma culturale. C'è tutto un settore della filosofia, oltre che della teologia, che tende a valorizzare l'individuo, esasperando l'antropomorfismo al punto da giungere a ipotizzare che sia Dio stesso a plasmare e volere ciascun individuo proprio così com'è, cosa che alimenta inevitabilmente contrapposizioni e violenze, e finisce inoltre per alimentare un possessivismo teso a valorizzare l'attaccamento al proprio io. La tradizionale teologia individualistica concepisce di fatto Dio come un imperatore con un seguito di sudditi, e questo sì che è assurdo! Ed è ovvio che, di conseguenza, equivoci su equivoci si accumulino sulle immagini divine, fino a ipotizzare un mondo invisibile sovrapposto a quello visibile, ma con criteri analoghi, eleggendo la contrapposizione a principio di lotta cruenta tra bene e male, col risultato di creare del male comunque. Anche se non possiamo sapere nulla di Dio, le nostre percezioni ci consentono di credere che non possa mai essere elemento di divisione, di conflitto, di emarginazione, ma caso mai di unione, di pace, di accoglienza. E quindi non di separazione del bene dal male, cristallizzando alla fine ciascuno nel suo stato, ma di trasformazione e ricupero del male fino a ricomporre incessantemente l'armonia d'insieme.

Tutto sommato, però, ragionando senza pregiudizi mi sembrerebbe abbastanza facile capire quel che Dio non è, o non può essere. Ma uscendo dall'antropomorfismo (per quanto possibile) si potrebbe trovare un'immagine accettabile e credibile di quel che potrebbe essere? In senso oggettivo, ripeto, non saprei rispondere, ma personalmente una risposta me la sono data, e proverò a esprimerla. Ogni volta che penso alla mia esistenza mi sento sommergere dallo stupore, e in particolare il percepire in me quel che si chiama coscienza mi appare una stranezza incomprensibile: che cosa mai sarà? Da dove trarrà origine e alimento? Capisco che debba avere una grandissima potenzialità e ho il sospetto di utilizzarne pochissima. E allora mi domando: questa stranezza della natura, che non riguarda solo me ma tutti gli esseri umani, esisterà solo nelle forme individuali, e quindi destinata a passare ed estinguersi con la morte di ogni individuo? Oppure attingerà il suo esistere da un bacino potenziale a disposizione di tutti: una sorta di coscienza d'insieme? Francamente l'ipotesi che tutte le singole coscienze siano possibilità sprecate, che le paraboli individuali, per importanti che siano durante il loro percorso individuale, siano tutte destinate ad andare perdute mi sembrerebbe il più assurdo degli assurdi. Ma se ipotizziamo invece l'esistenza di una coscienza universale, ecco che l'immagine di un insieme che vive e conosce il senso della realtà mi attrae e mi affascina, e mi stimola a credere che la mia piccola coscienza personale altro non sia che sacramento della coscienza d'insieme. E se è così, mi dico, allora il titolare di questa coscienza merita di essere chiamato Dio.

L'interrogativo di fondo, infatti, si pone come un aut aut: o la realtà ha un senso, oppure non ha senso, e in questo secondo caso l'assurdo assumerebbe dimensioni assolute. Ma se invece ha senso qualcuno dovrà conoscere qual è, altrimenti sarebbe un senso senza senso! E questo qualcuno chi potrebbe essere: un superindividuo, forse? Assurdo, assurdo (o almeno così appare a me) perché una coscienza assoluta è per sua natura transindividuale, e investe necessariamente l'insieme fino a essere tutto in tutti. Attenzione però: questo non significa affatto che debba sapere ogni cosa di quel che accade (e chi si azzarderebbe a entrare in tali dettagli), ma significa semplicemente che la realtà è cosciente di se stessa, cosa che da un senso a tutto l'esistente. Ed è bene precisare che si tratterebbe di un Dio personale, perché chi è cosciente di sé è persona, inequivocabilmente, anche se non di tipo antropomorfico. Tentare di precisare oltre credo che sarebbe velleitario, perciò non resta che dire: chi può intuire intuisca.

Da parte mia non saprei precisare meglio, e mi accontento di sottolineare che questa ipotesi mi appare come profumo divino diffuso nell'aria a disposizione di tutti, per chi vuole percepirlo. Una fragranza capace d'infiltrarsi in tutta la realtà rendendola inebriante, almeno per me. Questo è il Dio in cui credo, che nei significati riconosco in quello rivelato e descritto da Gesù Cristo, e quindi un altro Dio rispetto a quello utilizzato dai potenti (sia religiosi che politici) per realizzare i loro meschini interessi, come dimostra non solo la storia, ma anche la cronaca attuale per alcuni aspetti. Dio si è fatto carne, dice il vangelo, e a me verrebbe da soggiungere: per dimostrare che quel che non è Dio non ha possibilità di esistere, se non come parabola temporanea. E più oltre, là dove Gesù aggiunge: pensate che io sia venuto a portare la pace sulla terra? No, vi dico, ma divisione, il senso mi pare assolutamente logico, perché la vita che si incarna nei limiti individuali solleva inevitabilmente divisioni e conflitti. Il non-Dio non regge in alcun caso, neppure in chi è e si dimostra suo figlio, tanto è vero che Gesù, per affermarsi tale, è stato costretto a subire la più drammatica delle espulsioni dalla comunità degli individui. Perciò credo che sia corretto dire che siamo tutti figli di Dio, fatti dei suoi stessi cromosomi, ma il limite (l'individuo) impedisce di esprimersi secondo la realtà divina.

Credo nell'unicum sacroprofano che elimina ogni dualismo, ed è proprio l'immagine di Dio che s'incarna nell'uomo a esprimerne tutto il significato. Credere che lo spirito divino s'incarna in ciascuno di noi, e riconoscerlo, sottolinea l'importanza della collaborazione e dell'impegno a condividere la vita, perché oltre i limiti non ci si può andare da soli. Le contraddizioni antropomorfiche richiedono sovente interventi drammatici, ma bene e male fanno parte della stessa realtà, e per questo i nemici vanno amati, perché il male non è frutto di cattiveria, ma del corto circuito creato dai limiti per loro stessa natura. Va amato, perché è frutto d'ignoranza (i limiti sono dei paraocchi) piuttosto che di cattiveria (perdona loro perché non sanno quello che fanno). Odiare il male, alla fin fine, significherebbe odiare Dio, per questo bisogna invece amarlo: per trasformarlo. È difficile, senz'altro, ma la direzione di marcia è quella, altrimenti si cadrebbe nei trabocchetti della contrapposizione fino a rendere insuperabile l'individualismo. Del resto l'amore umano è proiezione verso il divino, e non valorizzazione delle contraddizioni terrene, o giustificazione delle caratteristiche individuali.

Non pretendo di sapere se le cose stanno proprio così, ma questo è l'oggetto della mia saldissima fede incerta. E qualunque sia il mio futuro (o non futuro) credo che l'armonia d'insieme sia il meglio per me e per tutti. Un'immagine che mi fa percepire la mia vita vissuta, sia pur piena di difetti, come evento positivo: questo mi basta e non chiederei altro. Se non ché la mi irriducibile curiosità mi spinge all'azzardo di andare ancora oltre, sfidando l'incomprensibile.



35. Una fede geniale

Giunti a questo punto sorge spontanea una domanda: e il dopo? Una volta estinto il mio personale individuo, per me sarà finita per sempre? Oppure? Qui mi torna in mente la seconda parte della misteriosa frase evangelica: «chi perderà la propria vita per causa mia la troverà». E mi domando: Gesù diceva delle stupidaggini, oppure sapeva il fatto suo e parlava a ragion veduta?

Che si tratti d'un invito a "perdere" la vita per motivi positivi, e non sprecandola a caso, mi sembra chiarissimo, ma quale sarà la "causa mia"? A pensarci bene, anche questo mi sembra abbastanza chiaro: la vita di Gesù, per chi crede in lui, ha valore simbolico, sacramento di quello che si presume sia l'atteggiamento divino, che essenzialmente significa vita per gli altri. Ecco (credo) il senso dell'espressione: per causa mia. La frase comincia ad apparirmi chiara nella sua interezza. Posto che in se stesso il mio individuo non ha prospettive diverse dal morire e svanire nel nulla, se pretendessi di racchiudermi su me stesso per difendere la mia identità, di per sé instabile, allora non potrei che perdere tutto. Ma Gesù mi indica un'altra prospettiva: perdere volontariamente il mio individualismo per proiettarmi verso l'integrazione col più grande di me. E aggiunge (udite, udite) che in tal modo potrei trovare la vita!

Sarà vero? Sarà credibile questa prospettiva? O non sarà invece un'invenzione di Gesù o degli evangelisti? Certamente, dal punto di vista antropomorfico, a prima vista affiora subito l'idea che sia assurda, e tuttavia è pur vero che ogni potenzialità di qualsiasi tipo è destinata a svilupparsi e realizzarsi, oppure a sprecarsi. L’individuo è una potenzialità vitale, ma se resta individuo non può che uscirne sconfitto, perché esiste soltanto in forma temporanea, destinata quindi a passare. Ora la prospettiva indicata da Gesù potrà essere più o meno credibile, ma ha indubbiamente il suo fascino: se provo attrattiva verso l’insieme, e cioè voglia di espandermi nell'oltre, voglia di perdere la mia identità individuale per coinvolgermi con la vitalità dell'insieme, allora potrebbero aprirsi altre prospettive.

E qui apro una parentesi per sottolineare che non si tratta di ragionamenti destinati a restare astratti e teorici, perché la proiezione verso l'oltre ha valore determinante nella vita concreta d'ogni giorno, che è il luogo dov'è possibile rinunciare al proprio cieco interesse, cioè all'egoismo, per dedicarsi agli altri. Si tratta, cioè, della radice stessa d'ogni atteggiamento sociale positivo. Di fatto, non la mia ma la tua volontà, significa: non il mio interesse personale ma quello altrui. Significa scegliere i valori d’insieme.

Tornando alla possibilità di altre prospettive, sarà vero? Sarà possibile? Chissà! Come esempio mi vien da fare un parallelo con la fisica. Da sempre l'umanità aveva pensato che la realtà fosse formata da due cose distinte: energia e massa, finché Einstein ha dimostrato che la massa non è altro che energia concentrata e l’energia non è altro che massa libera dalla compressione, con la possibilità per entrambe di potersi trasformare l'una nell'altra. La bomba atomica ne è la dimostrazione pratica. E allora mi chiedo: non potrebbe darsi, per analogia, che spirito e materia siano due aspetti della stessa realtà, e che la materia che compone il nostro individuo possa in qualche modo venire liberata dalla sua prigione e trasformarsi in altro? E mi conforta aver più volte vissuto quell'esperienza particolare che capita a tutti gli innamorati nei momenti di intenso coinvolgimento: quella di sentirsi proiettati l’uno nell'altro. Quando mi metto davanti alla mia sposa, anche adesso dopo sessant'anni di matrimonio, ecco che si creano degli effetti straordinari nei quali sembra che i confini tra i nostri due individui non siano più così ben definiti. Io sono qui, le dico, ma sono anche un po’ lì, dentro di te. È una vera e propria estasi (ex-stasis) che possiamo sperimentare ogni volta che fra noi si crea un momento d'intenso coinvolgimento reciproco. Questo ci fa sperare che sia possibile trascendere il proprio individuo, un agglomerato di materia che potrebbe anche conteere particolari potenzialità trasformanti. Così come la massa può diventare energia, non potrebbe l' individuo essere una potenzialità spirituale compressa in forma di materia, finché un'esplosione mortale non tolga le catene che lo imprigionano, lasciando allo spirito libertà di scatenarsi?

Quel che mi appare chiaro è l'impossibilità d'immaginare l'evoluzione finale verso un superindividuo, come qualcuno sembrerebbe ipotizzare, perché sarebbe come spostare il problema senza risolvere nulla. Personalmente, credo invece che bisogna puntare tutto sul superamento dell'individuo. Sarà possibile? Prima di indagare oltre i confini della logica umana tengo a ripetere ancora che, se anche il mio individuo e la mia identità finissero per sempre di esistere, sarei comunque contento di essere stato una nota della meravigliosa e drammatica sinfonia cosmica, mentre mi resta chiaro che se pretendessi di continuare a vivere, in qualsiasi modo, allora sarei tra quelli che nell'illudersi di poter conservare la propria identità si fanno schiavi o mercenari. Con il bel risultato di perdersi. Credo che, se ci sarà un qualsiasi proseguimento d'esistenza, sarà in forma completamente diversa, e per me inimmaginabile. Quindi, insieme al mio individualismo, dovrò anche rinunciare alla capacità di comprendere con criteri antropomorfici quel che avverrà.

A questo punto, per poter proseguire il cammino, subentra però qualcosa di capitale importanza, qualcosa che assume contorni paradossali, perché se è vero, ovviamente, che la trasformazione dell'individuo in senso spirituale o è possibile o non possibile, appare evidente che se mi pongo di fronte all'ipotesi con scetticismo il risultato sarà certamente negativo, perché non riuscirei comunque a scorgere eventuali segnali per entrare in sintonia con l'oltre. Mentre capisco che l'eventuale incontro con la trasformazione potrebbe realizzarsi solo nella fiducia che sia una cosa possibile. Che posso fare, dunque? Certezze non ne ho, non ne posso avere, e non posso forzarmi a sentire o credere altro da quel che mi appare convincente. Se avrò fiducia può anche darsi che resti ingannato e non succeda nulla, al di là della mia morte fisica, ma se non ho fiducia nella possibilità di trasformazione allora è certo che non avverrà niente di niente. Mi sembra di aver capito che per imparare a morire bisogna creare dentro di sé la vacuità, cioè uno spazio vuoto che possa essere riempito da qualcosa di più grande e inimmaginabile. Se inseguo un fine prestabilito, mi dico, allora non c'è più il vuoto. Perciò mi pongo a disposizione dell'insieme vitale (che molti chiamano Dio) nella fiducia che quel che avverrà di me sarà il meglio per Dio e per me.

Teilhard de Chardin diceva che per «cadere nella più-vita» bisogna «amare follemente il più grande di sé». Mi conforta avvertire un'irresistibile proiezione verso l'insieme, verso l'oltre, al punto da percepire l'essere me stesso quasi come un fastidio. Mi sento così meschino, mediocre, inutile; mi vergogno di esistere, del mio essere un privilegiato, della mia vita felice. Mi sento giustificato solo dallo strepitoso amore per la mia sposa (che si riverbera anche su figli, nipoti, bisnipoti, amici d'ogni genere e, quindi, in proiezione universale). E spero ardentemente che questa disposizione d'animo significhi anche fiducia verso tutto ciò che sarà possibile, al di là del credibile. E mi verrebbe da pregare: mio Dio, se si può partecipare alla tua vita, in qualsiasi forma, eccomi qui, pronto. Ma decidi tu per me: da parte mia sono già sufficientemente contento di perdere questa mia mediocre identità, appagato anche dal solo immaginare quel che vale più di me.

Che altro potrei fare? Il mio individuo cesserà comunque di esistere, e io che cosa faccio? Mi lascio trascinare passivamente verso la fine, oppure assumo un atteggiamento attivo per sottolineare che ho capito il senso positivo della perdita di me stesso, unico modo per affermare concretamente il valore positivo della vitalità d’insieme? Riuscirò ad accogliere volontariamente la morte del mio individuo come affermazione di un valore tanto grande da spalancare le porte d'ogni prigione? Cerco di ricordarmi spesso che defunto vuol dire compiuto, e non semplicemente estinto, e capisco che una vita compiuta esprime tutto il suo valore. L’individuo che sviluppa pienamente le proprie potenzialità, fino a potersi dire compiuto, diventa necessariamente altro. E dato che sento la stranezza accompagnare tutta la mia esistenza, non mi trattengo dal chiedermi se la morte non sia realmente una porta che schiude alla vita piena.

Non saprei come possa essere, questa vita piena, ma una volta ho ascoltato un esempio che mi ha fatto riflettere. Immaginiamo di non aver mai visto un uccello volare e di averne uno qui davanti con le ali ripiegate che zompetta qua e là sulle sue gambe. Potrò studiarlo accuratamente fino a credere di conoscerlo bene, ma quando aprirà le ali e si alzerà in volo resterò stupefatto e incredulo. Mi chiedo se l'individuo non sia come un uccello in piedi con le ali ripiegate. Se si lascerà morire così, allora semplicemente si estinguerà e la sua potenzialità resterà sprecata e inespressa. Se invece spiegherà le ali, che cosa mai potrebbe accadergli? Riuscirebbe forse a trasferirsi in altre dimensioni? Ma come si fa a saperlo finché restiamo confinati nella nostra? Finché siamo costretti dai nostri limiti a essere ciechi, sordi e con le ali tarpate? Pur restando fermamente convinto che il mio individuo non ci sarà più, resta comunque l'alternativa tra due possibilità: il nulla, oppure qualcosa di diverso.

Sarà quel che sarà, ovviamente, ma intanto perché mai rinunciare a sognare? Forse saranno illusioni, ma mi verrebbe da dire: benedette illusioni, dal momento che esistono, perché rinunciare a sperare sarebbe comunque la fine di tutto, illusioni comprese. Personalmente non mi trattengo dal ripetere che giunti a questo punto non me ne importa nulla di perdere la mia identità, dalla quale mi sento ormai abbastanza distaccato. Perciò rinuncio a sperare in qualche beneficio personale, mentre mi entusiasma accorgermi di aver fede in una realtà divina che intuisco magnifica, vitale, attraente, geniale. 


36. L'affascinante insieme

Azzardandomi a fare un altro passo per andare a spaziare nientemeno che nel più alto dei cieli, mi proporrei di stare con i piedi ben piantati per terra. Che pretesa, si potrebbe dire, ma qui entriamo nel paradossale, nel fantastico, nell'incredibile, e solo a pensarci verrebbe da sbellicarsi dalle risa. Però anche quando penso all'esistenza di un tipo buffo come me, che fa ragionamenti stravaganti come quello che sto facendo, mi vien da ridere, e allora tutto si ridimensiona. D'altronde non sarebbe possibile parlare seriamente di trascendenza senza scherzarci un po' sopra! Cercherò di non prendermi troppo sul serio, e invito a fare altrettanto.

Qualche pensatore ha detto che la goccia d'acqua, quando cade nel mare, perde la sua identità, ma l'acqua non va perduta. Così mi viene da immaginare il mare nel suo insieme, tutto il mare, che simbolicamente assume un senso assoluto. E immagino che in questo mare ci sia una piccola porzione d’acqua racchiusa da un contenitore. Quella porzione d’acqua non è il mare, ma il mare è anche quella porzione d’acqua, che è un aspetto limitato ma pur sempre compreso nell'universalità marina. Volendo si può ipotizzare, ad esempio, che il contenitore sia assolutamente impermeabile, e quindi non vi siano scambi tra l’acqua al suo interno e quella all’esterno. Ma si potrebbe anche supporre un contenitore più o meno permeabile che consenta travasi d’acqua, con significative variazioni d’identità. E ancora, un contenitore di materiale biodegradabile che con il passare del tempo finisce per sciogliersi, lasciando alla propria acqua libertà di espandersi interamente nel più grande di sé.

A quel punto l'identità caratteristica di un singolo contenitore non esisterà più, ma l’acqua non si perde. Certamente è facile lasciarsi trascinare dalla perplessità: che cosa me ne faccio che l'acqua continui a vivere, mi verrebbe da dire, se la mia identità è perduta? E tuttavia, mi chiedo, ma la mia realtà intima è il contenitore o l'acqua contenuta? Mi ricordo che la preghiera per i defunti recita molto saggiamente che per chi ha fede la vita non è tolta ma trasformata. E allora mi domando: ma il mare nel suo insieme (questo simbolico assoluto), avrà la percezione della propria identità? Sarà cosciente di sé? E se sì, non potrebbe avere la possibilità di assorbire e identificare in sé quelle coscienze che travalicano i confini del proprio io individuale, perché attratte prepotentemente dalla vita senza limiti? Ripetiamoci pure che non lo possiamo sapere, ma la sola sensazione può essere sufficiente per incidere sui nostri atteggiamenti, e nel mio caso mi accorgo che è così, perché l'oltre mi attrae decisamente. Ne trovo conferma dal fatto che, seppure talvolta non rinuncio a scontrarmi con qualcuno, non riuscirei comunque a radicalizzare i disaccordi neppure volendo, perché istintivamente mi ritrovo ogni volta a farmi avanti per primo a tentare il ricupero e ricostruire armonia.

Parecchi mistici hanno espresso immagini analoghe. Meister Eckhart diceva che «tutte le creature sono una cosa sola nell’Uno e sono Dio in Dio, in se stesse però non sono nulla». San Giovanni della Croce ipotizzava che quanti si ritroveranno in Dio «vivranno non la propria ma la vita divina» e Santa Caterina da Genova sosteneva che «l’anima pura in Dio è Dio». Nell'esempio del mare si dovrebbe dunque ipotizzare che una volta perso il contenitore che la teneva separata, l'acqua si integra totalmente con il tutto, partecipando consapevolmente all'identità d'insieme. La potenzialità individuale potrebbe andare sprecata, esaurirsi, non arrivare ad esistere, finire nel nulla. Ma potrebbe anche produrre una dinamica spirituale trasformante capace d'integrarsi in Dio. Anzi, secondo certi mistici, fino a sovrapporsi totalmente a Dio al punto da vivere la sua stessa vita. Altro che identità perduta!

I mistici usano sovente espressioni di tipo sacramentale (simbolico), tanto è vero che quando tentano di comunicare le loro esperienze attraverso linguaggi antropomorfici vengono facilmente travisati e non capiti. La storia racconta di moltissimi casi di mistici, oggi riconosciuti e apprezzati, e alcuni perfino proclamati Dottori della Chiesa, che per quello che dicevano ai loro tempi sono stati accusati di eresia, o addirittura mandati al rogo. Il che, tra l'altro, è la chiara dimostrazione che sovente le divergenze di opinione sono soltanto equivoci di linguaggio.

Un Dio così, capace di avvolgere tutto, di accogliere e trasformare anche gli aspetti contrari al suo essere, mi pare convincente, almeno nel significato. E mi piace, mi entusiasma, lo trovo favoloso, fantastico, e tanto più se lo paragono al tradizionale Dio seduto sul "trono dell'altissimo", impegnato a distribuire benefici o punizioni. Del resto la maggior parte delle concezioni teologiche tradizionali, legate a criteri antropomorfici, oggi risultano difficilmente credibili, mentre nell'immagine del grande insieme nessuno viene emarginato, tutto viene trasformato, e allo stesso tempo viene anche rispettato il diritto di morire, cioè la scelta che ogni singolo può fare tra l'entrare nella vita vera o estinguersi al temine della propria parabola terrena. A chi ha (l'orientamento verso l'insieme) sarà dato e sarà nell'abbondanza, come dice il vangelo, che poi aggiunge: e a chi non ha sarà tolto anche quello che ha, cioè il suo individualismo, che non ha sbocchi oltre i propri limiti. Certamente l'idea di perdere l'identità personale può venir vissuta come trauma insopportabile. Ricordo una signora che immedesimandosi nell'idea che un individuo possa finire nel nulla, se spreca la propria vita, ripeteva: no, no, non posso neppure pensarci, preferirei di gran lunga finire all'inferno. Il che la dice lunga su quanto si possa essere attaccati al proprio io! Ma forse non aveva capito che non sarebbe una realtà esistente a finire nel nulla, ma molto più semplicemente una potenzialità sprecata, un'occasione di poter "esistere" che non viene realizzata.

Non dimentico, non voglio dimenticare che stiamo parlando dell'incredibile, ma neppure posso ignorare la stranissima sensazione di stupore che mi avvolge. Confesso che nel descrivere queste ipotesi sul divino avverto una forte emozione, come se mi sentissi prossimo a fare scoperte affascinanti. Forse sarò un esaltato, mi dico, ma anche se così fosse, l'esperienza che vivo sarebbe pur sempre una realtà concreta. E se non si trattasse che di suggestione direi: viva la suggestione. Ma soprattutto la parola Dio, così maltrattata e abusata a tutti i livelli, tanto da essere antipatica a molti, a me sembra ricuperare in pieno il suo fascino, se serve a indicare l’insieme di tutte le realtà esistenti, belle o brutte che siano, integrandole totalmente dentro di sé. Un Dio che riunisce tutti gli individualismi, e mentre dal proprio punto di vista ciascuno di noi (essere limitato) dice "io" per distinguersi dagli altri, questo Dio vivrebbe tutte le singole esperienze dal suo punto di vista quasi a voler dire di fronte a ogni evento: sono sempre io, sono l'io tutto in tutti! E mentre lui vivrebbe ogni esperienza per intero, dal suo punto di vista, ciascun individuo ne vive soltanto una porzione limitata da paraocchi che rischiano di nascondergli l'orizzonte, ma che possono anche dilatarsi fino a rendere compiutamente realizzata la potenzialità che è in lui: quella di travalicare il contenitore e integrarsi nell'insieme.

Continuo a ripetermi che non posso saperne nulla, ma non è vietato riflettere sulle intuizioni. La favola della coscienza individuale che giunge a fondersi nella coscienza universale, ampliando a dismisura la propria identità anziché annullarla, mi riempie di gioia. Questo credo sia il meglio che si può sperare: le identità compiute permangono, ma non poste l'una distaccata dall'altra in una divisione insuperabile, bensì compenetrate l'una nell'altra in un insieme unitariamente plurale. Ciascuno, alla fine, sarà quel che può diventare: se spreca l'occasione non resterà nulla, mentre se realizza la propria potenzialità (i talenti ricevuti in dote) s'identificherà con la coscienza divina. È sempre Meister Eckhart a dire: «Dio deve assolutamente diventare me, e io assolutamente Dio», il ché significa che l'individuo o muore o diventa Dio. Incredibile, incredibile, potrei dire che Dio è mio genitore, ma anche mio figlio! Mi ha generato, ma anch'io lo (ri)genero! Stupefacente.

Voglio ripetere ancora che non lo so, che so di non sapere nulla del mondo divino, non l'ho dimenticato. Ma l'immagine che la mia fantasia mi suggerisce la trovo affascinante, e aggiungo che sognare è magnifico, e nessuno me lo può impedire, così come nessuno potrebbe escludere che un sogno esprima realtà.

Qualche tempo fa, per diversi anni, ho vissuto un'esperienza straordinaria: vedevo l'arcobaleno di notte. Tutt'attorno alla luna, a una certa distanza, vedevo un arcobaleno nitidissimo e fantastico. Lo dicevo e la gente mi prendeva per un visionario, ma l'arcobaleno era lì, magnifico e rigoglioso, e lo vedevo, non avrei potuto negarmelo. Poi mi hanno operato di cataratte e l'arcobaleno è svanito, con mio sommo dispiacere. Ma ho intuito qualcosa di nuovo: come il cannocchiale è stato per Galileo uno strumento utile per penetrare nei misteri del cosmo, le cataratte sono state per me strumento adatto a colorare di luci il buio che va oltre la comprensione razionale.

Meravigliarsi è un'arte che illumina la realtà, e l'arcobaleno di notte ora non lo vedo più, ma permane stampato dentro di me in maniera indelebile. Non posso escludere che siano delle cataratte mentali a farmi intuire l'immagine divina che mi ha conquistato e mi affascina, ma chi potrebbe garantire che gli occhi migliori sono quelli senza cataratte? E poi lasciatemi ripetere che se alla fin fine si trattasse solo di un sogno, sarei contento di averlo vissuto, e ringrazierei la mia fantasia di avermi fatto immaginare l'inimmaginabile.

In conclusione, ora che sto per mettere la parola fine a questo mio lavoro, non saprei dire quanto abbia imparato, ma potrei dire che da qualche tempo vivo la sensazione di percepire sprazzi della mia morte. O forse della mia vita. Chi vede me vede il Padre, diceva Gesù, e la cosa vale per tutti perché nel proprio modo di essere ciascuno esprime il Dio in cui crede (o non crede). La mia speranza è quella di mostrare esplicitamente tutta la fiducia che provo verso la vita nella sua proiezione più ampia. Così come sono contento della mia vita e del modo in cui si è svolta, non chiedo altro e non mi sottraggo al futuro, qualunque sia. La mia fede continua a ripetermi che qualsiasi cosa sarà il meglio per me e per tutti, Dio compreso. Un'immagine d'insieme così convincente da spingermi a ripetere ancora senza riserve: non la mia ma la tua volontà.

37. Non ho ancora imparato, però, però…..

Or che siam giunti al fin della licenza, meglio congedarci con qualche riflessione terra terra. E allora parliamo un po' di fiumi, corsi d'acqua individuali che scorrono attraverso asperità terrene d'ogni tipo, per sciogliersi poi nell'immenso mare. La fase terminale può essere estuario o delta, con risultati analoghi ma sensibili differenze di percorso. Finora il flusso del mio fiume personale sembra ancora unitario, tutt'al più con qualche isoletta che divide a volte il corso d'acqua in due bracci per lasciarli poi riunire a valle. Ma la fase terminale è comunque prossima.

Non riesco ancora a capire quale sia il percorso migliore, e se dovessi scegliere sarei incerto. Personalmente ho grande simpatia per l'estuario, che conduce tutta insieme la massa d'acqua a un impatto robusto e spumeggiante tra dolce e salato, stimolandoli a inseguirsi l'un l'altro fino a fondersi tra loro come gli innamorati. Ma anche il delta ha un fascino, con il suo dividersi a monte in mille rivoli, quasi a voler diluire il grande trauma della perdita d'identità in tanti piccoli traumetti. E mi domando se, proprio per queste sue caratteristiche, non renda più facile l'uscita dall'individualismo.

Se il mio percorso finale sarà l'uno o l'altro vedremo, quanto al seguito non saprei proprio che cosa credere. Comunque sia il "già fatto" non conta più, devo solo guardare avanti e vivere intensamente il presente, per giungere vivo all'incontro terminale tra il mio individuo e l'oltre, comunque inteso. Però m'interessa identificare i segnali per capire se sto diventando estuario o delta, anche perché l'attenzione a quel che mi sta accadendo giorno dopo giorno potrebbe essere il modo migliore per abbandonare ricordi e rimpianti, senza voltarmi indietro. Talvolta ho l'impressione di sentire profumo di mare e fruscio di risacca, ma non capisco se sia reale o una proiezione del mio inconscio. Forse sono ancora fantasie, e aspetto il momento in cui li avvertirò senza più dubbi. Allora significherà che presente e futuro sono tutt'uno, perché l'incontro, quando avviene, è già avvenuto.

Non so se i percorsi terminali d'un fiume siano casuali o dipendano anche da proprie scelte, ma se dipendesse da me sarei ancora incerto su quale fare. Nell'estuario il traguardo, pur se può fluttuare avanti e indietro per chilometri, è chiarissimo e si colloca là dove non è più possibile distinguere tra fiume e mare. Nel delta invece si presenta in modo differente, perché la distribuzione frazionata dell’acqua in più rivoli sembra voler rinunciare a fondersi nel mare come realtà unitaria, consentendo alla propria identità di esaurirsi a poco a poco. Mi domando però se non ci sia il rischio, in tal modo, di perdere anzitempo la percezione della vita che si sta compiendo. Forse potrebbe essere una via meno drammatica, mi dico, anche se per istinto preferirei l'impatto diretto, perché tra l'uscire di scena inconsciamente e affrontare consapevolmente il salto, il mio carattere non avrebbe dubbi. E tuttavia, alla fine, il risultato sarà lo stesso, e per me andrà bene comunque.

La discriminante di fondo, che nel linguaggio antropomorfico viene tradizionalmente chiamata giudizio finale, credo si realizzi nel corso di tutta la vita, esprimendosi tra il lavoro per l'insieme o il rinchiudersi nell'individualismo radicale (il che equivale a dire: tra vita positiva o negativa). Dopo di ché le conseguenze saranno automatiche, senza bisogno di un giudice che emette sentenze. La storia è costellata di drammi e tragedie, ma anche di momenti esaltanti, conseguenze di chiusure nel proprio ego o aperture agli altri. Il tempo odierno sembrerebbe particolarmente negativo, tanto che si avverte una sensazione di scoraggiamento, ma forse i periodi che parevano migliori erano soltanto più spensierati. Drammi di tutti i generi: un recente nuovo rapporto sulla situazione climatica del pianeta ripropone le antiche preoccupazioni, dicendo che andare avanti a sparare CO2 nell'atmosfera come se niente fosse ci porterà dritto dritto verso lo scenario peggiore. E poi non mancano mai guerre, tragedie dell'emigrazione, violenze anche domestiche, malattie, malformazioni: quante cose brutte ci sono in questo nostro meraviglioso mondo! Però quante cose belle, anche! L'arte, talune espressioni della natura, i rapporti umani, soprattutto con bambini, il sorriso degli innamorati, un Papa che (finalmente) sembra uno di noi, l'amore che rinasce continuamente senza mai stancarsi, perché, come dice una vecchia canzone, è un fiore stran, lo cogli oggi ma rispunta l'indoman.

Insomma, un mondo diabolico e divino a un tempo: come mai? A pensarci bene, però, non c'è nulla di strano. È orribile? Ovvio, è il contrario di Dio! È meraviglioso? Ovvio, è complementare a Dio! Possono sembrare battute di spirito, ma a me pare che nell'ottica dell'insieme molte cose diventino chiare. Nell'unicum sacroprofano la realtà è diabolica e divina a un tempo, e mentre i nostri limiti si esprimono individualmente producendo tanti disastri, il divino continua a manifestarsi rigoglioso perfino nelle situazioni peggiori, senza mai porsi in contrapposizione al male, ma lavorando incessantemente per ritrasformarlo in bene.

La mia lunga vita intensamente vissuta mi ha regalato sempre nuove emozioni, e se è vero che non c'è nulla di perfetto a questo mondo, come diceva la volpe, direi che non c'è neppure nulla di totalmente negativo. Molti sono stati gli incontri interpersonali per ciascuno dei quali valeva la pena vivere, perciò ringrazio tutti coloro che mi hanno accompagnato, in primo luogo figli, nipoti e bisnipoti, soprattutto per le loro ricche pluralità di carattere e di comportamento. Facciamo parte dello stesso ceppo, ma siamo così diversi! Quel che però accomuna tutti è lo scarso attaccamento al danaro e la capacità di saper affrontare serenamente le avversità, per gravi che siano. Inoltre, poi, hanno tutti un gran senso della famiglia, cosa che mi appare come sacramento di quella divina, alla quale appartengo. Che cos'è infatti l'attaccamento alla famiglia se non voglia d'insieme? Un senso di appartenenza che vivo come grazia, alla quale non potrei sottrarmi neppure se volessi.

Questa sensazione mi riempie di felicità, ma devo ammettere che è proprio difficile essere felici! Perché non va tutto bene, non sarebbe possibile con figli, nipoti e bisnipoti di varie età, oltre ad altri cari amici, pronti a nuove invenzioni ogni giorno per alimentare ansie e preoccupazioni. Per la cronaca, in questi giorni la mia figlia maggiore (quasi sessantenne) ha avuto la geniale idea di rompersi una spalla e un gomito, ma siccome non le piacciono le cose semplici si è rotta la spalla destra e il gomito sinistro. Risultato: non può fare nulla da sola (né mangiare, né vestirsi, né andare in bagno). La seconda figlia, al momento, si limita a coltivare delle tipiche assenze mentali: sarà un piccolo male, che però solleva qualche inquietudine. Su preoccupazioni per nipoti e bisnipoti, abituali frequentatori del pronto soccorso, si può anche sorvolare: Ma poi c'è una dolorosa spina nel fianco che mi accompagna quotidianamente: la salute di mio figlio, al quale sono particolarmente grato per il suo modo di affrontare con serena tranquillità i suoi guai (ne ho parlato in uno dei primi capitoli). Pur con tale strazio nel cuore, però, devo riconoscere che mi è facile vivere ogni situazione, bella o brutta che sia, con stato d'animo positivo, data la straordinaria fortuna di poter condividere gli affanni con la mia sposa. E tanto più ora che siamo vecchi e possiamo coltivare liberamente i nostri hobby. Lei, da tempo, si dedica a quello di cascatrice, e per non smentirsi mai si allena con tenacia, tanto che in questi giorni, al termine di un suo ennesimo esercizio, l'ho dovuta accompagnare a farsi un braccio di gesso nuovo fiammante. Quanto a me, oggi che va di moda il mestiere di badante, ho la fortuna di poterlo fare per hobby. O meglio, da amatore, come si dice correttamente nella lingua italiana. Mi domando se agli occhi altrui è chiara questa mia straordinaria fortuna: ora che la mia sposa ha bisogno di aiuto ho il privilegio di essere ancora abbastanza in forze per poterla aiutare. Talvolta lei tenta d'impedirmelo e si mette a "fare" per conto suo, col rischio che le si gonfi la mano o si rovini il gesso, e così mi tocca ripeterle, con pazienza, che quando ci si dedica a hobby particolarmente arditi non si può pretendere di scansare le conseguenze. Ma su questo lei fatica a adattarsi. Ammetto comunque che non è una padrona troppo esigente: si accontenta abbastanza, mi maltratta solo di tanto in tanto, e non si trattiene dal darmi soddisfazioni professionali (anzi, da hobbista). Secondo me, è proprio vero che a chi ha sarà dato e sarà nell'abbondanza, che sarebbe poi come dire: chi ama riceverà amore. Infatti, se corrisposto, l'amore è sempre sovrabbondante, come posso ben testimoniare. Così l'idea di dover imparare a distaccarmi dai possessi non mi turba, perché so che l'amore per la mia sposa non è un possesso.

Sono anche ben cosciente di aver fatto tante sciocchezze durante i lunghi anni della mia vita, con la sensazione di aver avuto per le mani delle perle preziose che ho poi sprecato, o dei semi che ho calpestato invece d'innaffiare. E quel ch'è peggio continuo imperterrito, tanto che certe volte non mi resta che sentirmi uno scemo senza speranza. Anche se uno scemo felice, sia chiaro. Insomma, ho molti difetti e non mi trattengo dal farne uso, e tuttavia, se spesso mi metto nei guai, trovo sempre chi mi suggerisce qualche soluzione. Sarà il caso? Chissà! Comunque sia, per quel che son riuscito a combinare di positivo ho ricevuto fin troppi apprezzamenti, ma è il ricordo di aver fatto sbagli su sbagli che continua a insegnarmi molte cose. Non mi resta che cercare di sbagliare meglio, come suggerisce Beckett.

Come un vagabondo che girovaga a caso un po' qua e un po' là, nello svolgere questo mio studio per qualche tempo mi sono trastullato con quel che la vita mi metteva davanti giorno dopo giorno, ma poi ho capito la necessità irrinunciabile di dovermi confrontare con il mio individuo. E nel confronto con me stesso (nel senso più ampio, incluse le relazioni interpersonali) ho finito inevitabilmente per confrontarmi con l'assoluto che mi comprende. Ed eccomi qua.

Ora, al fin della licenza (quella di questo scritto, non posso sapere se poi ci sarà dell'altro), sento di essermi liberato di qualche bagaglio ingombrante, e mi vien da dire: che bellezza, ormai devo soltanto imparare a morire! Con questo lavoro qualcosa ho appreso, ma fino a che punto non saprei: per certi versi mi rendo conto che sto ancora strizzando l'occhio alla mia coscienza. Tuttora, talvolta, continuo a ricascarci, torno a prendermela per certe stupidaggini, e allora mi dico: non ho ancora imparato. Anzi, talvolta ho proprio l'impressione di non saper imparare (a morire), perché sono ancora troppo contaminato dall'affanno quotidiano per le cose da far quadrare e mettere a posto, altrimenti … Poi però, nei momenti d'illuminazione, mi domando: altrimenti che cosa?


38. La morte quotidiana tra risposte e domande

Conosco vecchi come me che s'inventano occupazioni di tutti i tipi per vincere la noia e "ammazzare il tempo". Ma io non sono un assassino, anzi, potrei dire che il tempo me lo godo tutto, e quando mi capita di annoiarmi sono felice e lo prendo come un invito alla meditazione. E se è vero che amo me stesso e la mia vita, so che una volta compiuta non avrebbe senso volerla trascinare oltre: immagino sarebbe noiosissimo. Potrei dire di aver dedicato quasi tutto il mio tempo allo studio e alla ricerca, e che cosa ho trovato? Mah! Ora capisco che il traguardo di ogni interrogativo è come l'orizzonte: cammino e si allontana, continuo a camminare e continua ad allontanarsi. E allora? A che cosa serve cercare? Questo studio, se non altro, me lo ha reso chiaro: serve a continuare il cammino!

Perciò il mio studio continua, mentre questo scritto, che termino qui, è stato solo un aspetto particolare, quasi una tesi di laurea discussa via via che la stendevo. Il titolo che gli avevo dato all'inizio resta calzante, perché sto continuando a studiare per mantenermi vivo nell'attesa dell'incontro finale con sorella morte, che spero di saper accogliere con la cortesia e il rispetto che merita. Mi piacerebbe addormentarmi con lei, la sera del grande giorno, con la stessa tranquillità che mi accompagna ogni sera nell'affrontare quella piccola morte quotidiana che si chiama il sonno.

Ringrazio tutti coloro che mi hanno inviato commenti (anche solo col pensiero), non importa se d'approvazione o dissenso. A chi mi ha seguito con pazienza e un pizzico d'interesse auguro di non stancarsi mai di porsi domande sul senso dell'esistenza, perché indipendentemente da quel che si riesce a scoprire, le domande valgono sempre più delle risposte.


Il mio buco nero

Giunto alla mia età
sono in corsa, lo so, verso l'abisso
un buco nero mi catturerà
per trasferirmi in dimensione sua.

Chi può soltanto immaginare
come sarà?
Vitale, annichilente
oppure, oppure….

Non mi sottraggo
eccomi, a fra poco
e poi vedremo.

Oppure non vedremo.








[Scritti][Pittura][Automobilismo][Comunità][Quotidiano][Contatti]


© 2009 /2024 tutti i diritti riservati.